In questi giorni i media hanno messo in luce un dato emerso dall’ultimo censimento: nel nostro Paese in dieci anni è triplicato il numero degli stranieri, e molto si sta parlando di questi “nuovi italiani” come risorsa della nostra società. A questo proposito vi invito a leggere un articolo che ho pubblicato sul mensile Yoga Journal riguardo a un gruppo particolare di questi “nuovi italiani” che risulta quasi “invisibile” alla maggioranza di noi. Si tratta degli indiani di religione sikh, che lavorano nelle campagne di molte regioni del Nord e del Centro Italia. Buona lettura.
Vivono in mezzo a noi, svolgono lavori indispensabili per la nostra società, eppure noi non li vediamo quasi mai. Sono i Sikh emigrati dal Panjab indiano, che noi residenti nelle città abbiamo poche occasioni di incontrare perché loro vivono nelle cascine delle nostre campagne: lavorano nei campi come agricoltori e come bergamini (addetti agli animali da latte) e nell’industria lattiero-casearia. Svolgono compiti che nessun italiano vuole più svolgere, come quello di alzarsi ogni mattina alle quattro e mezza per mungere le mucche. Sono lavoratori molto apprezzati per la loro serietà ed esperienza, anche perché fanno questi stessi lavori agricoli pure nello Stato da cui provengono, il Panjab, che è noto come “il granaio dell’India” ed è ricco di allevamenti di bovini. Così, sono diventati indispensabili anche a settori importanti della nostra economia: qualche mese fa, per esempio, il presidente della Coldiretti della Provincia di Cremona, Davide Solfanelli, ha affermato che un terzo dei lavoranti nelle stalle del cremonese è costituito da indiani sikh e che senza di loro a Cremona non si potrebbe produrre il Grana Padano. E il fatto che un prodotto “padano” finisca sulle nostre tavole grazie ai Sikh del Panjab è un segno evidente (e un po’ paradossale) della globalizzazione in atto.
Sikh del Khalsa davanti al Tempio di Pessina Cremonese (Cremona). Foto di Marco Restelli
Quanti sono i Sikh italiani? Impossibile dirlo con precisione ma certo varie decine di migliaia, sicuramente la maggioranza degli oltre centomila indiani residenti in Italia. Eppure non “fanno notizia” quasi mai, un po’ perché vivono con le famiglie appartati nelle cascine e un po’ perché non delinquono, cioè non finiscono mai (a differenza di altri immigrati) nelle pagine di cronaca nera dei nostri giornali. I Sikh italiani vivono soprattutto in Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia-Romagna e Lazio, si integrano nella nostra società pur mantenendo i propri costumi tradizionali e ormai hanno eretto nel nostro Paese una dozzina di templi che chiamano Gurdwara, cioè “la porta del Guru”, il Guru supremo che è Dio. Il Gurdwara più noto si trova a Novellara, in provincia di Reggio Emilia, e fu inaugurato da Romano Prodi nell’anno Duemila, ma ultimamente ne sono sorti altri: a Marene (Cuneo), a Sabaudia (Latina) e, nell’estate 2011, a Pessina Cremonese (Cremona).
Proprio la cerimonia d’inaugurazione del tempio di Pessina Cremonese ha portato per la prima volta l’opinione pubblica a conoscere i Sikh perché ha attirato i mass media. Un piccolo “caso mediatico” dovuto a due ragioni: quello di Pessina Cremonese è uno dei Gurdwara più grandi d’Europa e alla sua inaugurazione hanno partecipato circa seimila Sikh provenienti da tutto il Nord Italia. Le donne con i loro coloratissimi abiti indiani, gli uomini con turbante, lunga barba e coltello rituale (il kirpan, che non è un’arma bensì un simbolo religioso) per un giorno hanno trasformato quell’angolo di pianura padana in un angolo di India, con stupore degli italiani accorsi numerosi a seguire la cerimonia. E a tutti i visitatori i Sikh hanno offerto da mangiare, con grande ospitalità.
I Gurdwara sono luoghi aperti a tutti, perché alla base del Sikhismo c’è proprio il concetto dell’accoglienza nei confronti dell’altro, tant’è vero che annessa ad ogni tempio c’è sempre una grande cucina (chimata langar) dove chiunque arrivi dev’essere sfamato e ospitato gratuitamente, come segno del fatto che Dio accoglie tutti, a prescindere dalla sua religione o etnia. E’ un esperienza che vi consiglio di fare: andate in un Gurdwara e chiedete un colloquio con i responsabili del tempio, conoscerete persone gentili che saranno liete di raccontarvi la propria storia e religione, poi verrete portati nel langar dove vi faranno sedere su una stuoia, in una lunga fila insieme ai Sikh, e vi serviranno in un piatto di metallo un pasto panjabi, a base di riso, dhal (lenticchie), verdure varie e chapati (pane indiano). Per ringraziare, se vorrete potrete lasciare un’offerta volontaria. Ma nessuno vi chiederà nulla.
Lo spirito di accoglienza che contraddistingue il Sikhismo fa parte del DNA di questa religione nata in Panjab fra il XV e il XVI secolo, in un’epoca segnata da duri scontri – sia sul piano culturale sia su quello militare – fra hindu e musulmani. Il Sikhismo nacque dalla predicazione di un mistico itinerante, Nanak, che voleva appunto superare quei contrasti predicando una via spirituale che mettesse in sordina le differenze e conciliasse Islam e Induismo in una nuova religione. «Ti chiamano Allah o Vishnu o con mille altri nomi ma sei sempre e solo Tu», dice Guru Nanak in un inno sacro. Nanak raccolse intorno a sé un gruppo di “seguaci” – questo è il significato della parola “Sikh” – e così nacque il primo nucleo di una comunità religiosa che oggi rappresenta il 2% della popolazione indiana. Il Sikhismo non ha un clero ma propugna un rapporto diretto fra l’uomo e Dio, come l’Islam è monoteista ma mantiene nei riti anche segni dell’influenza hindu, come l’offerta di ghirlande di fiori. E il libro sacro dei Sikh – il Guru Granth Sahib – si caratterizza per una particolarità davvero unica al mondo: è l’unico libro di una religione a contenere inni anche di mistici di altre religioni (musulmani e hindu).
Dopo Nanak i Sikh ebbero altri nove Guru, l’ultimo dei quali, Govind Singh, nel 1699 riformò in senso “marziale” la comunità fondando il Khalsa, “l’ortodossia”, i cui membri devono seguire precise regole: una sorta di battesimo, devozioni, austerità nei costumi (astinenza da alcol, fumo, droghe), servizio volontario agli altri (“sewa”) nei langar e non solo, e l’uso di adottare il cognome Singh (“leone”) per i maschi e Kaur (“principessa”) per le femmine. Le regole del Khalsa impongono al Sikh “battezzato” anche di essere riconoscibile nell’abbigliamento, e da qui l’uso del turbante (per uomini e donne, benché di diversa foggia), la lunga barba per gli uomini e – per tutti e tutte – l’uso di portare un piccolo pugnale, il kirpan, a testimoniare la disponibilità a difendere la fede con la vita. Queste le regole del Khalsa, ma bisogna ricordare che non tutti i Sikh appartengono al Khalsa; molti – soprattutto fra i più giovani – non seguono queste regole, perciò non hanno un “aspetto Sikh”. I ragazzini Sikh che frequentano le nostre scuole sono italiani a tutti gli effetti, magari non porteranno mai il turbante ma resteranno nel loro cuore fedeli all’essenza della propria fede: offrono e chiedono rispetto, e sarà nostro dovere accoglierli con lo stesso rispetto.