Parliamo di razzismo: ma prendiamola larga. In un articolo di
Repubblica dell’otto Agosto scorso – Maurizio Ferraris, docente di filosofia presso l’Università di
Torino – proponeva un ritorno al pensiero forte in opposizione, ovviamente, a quello debole di cui si è fatto portatore il postmodernismo sostenuto ad esempio da Vattimo, sempre della stessa Università. Coinvolgendo la stampa nazionale, ed internazionale, in quello che di solito potrebbe sembrare un problema trincerato dietro le mura delle accademie, Ferraris scatena una reazione a macchia d’olio su tutti i maggiori quotidiani da parte di autorevoli filosofi e critici che, dalle barricate di
Micro Mega,
Il Sole 24 Ore,
Corriere della Sera, ecc., rispondono a suon di tecnicismi, visioni filosofiche diverse, o solidali a quella di Ferraris. Ma perché tutto questo interesse per un dibattito filosofico sui maggiori media nazionali? Il punto centrale su cui il “nuovo realismo” pretende giustizia nei confronti del postmodernismo è il concetto di verità: per i secondi, infatti, la realtà delle cose non è mai accessibile in quanto tale, visto che è mediata dai nostri pensieri e dai nostri sensi. Ed è proprio qui che si gioca la partita, sul fraintendimento che i sostenitori del realismo d’oggi fanno notare al postmoderno, ovvero la confusione tra il piano ontologico e quello epistemologico: tra quello che c’è e quello che sappiamo a proposito di quello che c’è. Per fare un esempio caro ai filosofi, sembra abbastanza scontato che per sapere che il sale è cloruro di sodio ho bisogno di linguaggio, di schemi e di categorie umane. Ma che il sale abbia dei cristalli dal reticolo cubico è vero sia che io lo sappia sia che io non lo sappia, indipendentemente dall’esercizio ermeneutico che mi contraddistingue come umano. Come dice Ferraris, in sostanza, «a un certo punto c’è qualcosa che ci resiste». Ed è dunque ovvio, in tal senso, l’interesse generale per un dibattito tanto tecnico: se i “nuovi realisti” hanno ragione, come le evidenze filosofiche sembrano mostrare, allora ha ancora senso parlare di verità senza virgolettare di continuo questa parola. Forse, dunque, ha ancora senso discutere di giusto e sbagliato e non, come attualmente siamo abituati a fare come abitanti di una società specifica, di ingiustificato od illegale. Prendiamo un esempio concreto, e cerchiamo di venire al dunque mostrando tutta l’efficacia del dibattito sul “nuovo realismo” per i fatti di oggi (ebbene si, la filosofia ha un valore pratico). Consideriamo quanto è successo l’undici Dicembre a Torino, dove numerose baracche di un campo
nomadi sono state distrutte a causa di un blitz nel quartiere Vallette, appena dopo la manifestazione per la sedicenne che aveva denunciato la violenza inesistente. Se i “nuovi realisti” hanno ragione, allora ha senso parlare di un atto sbagliato, che è tale perché si allontana da un’idea di giustizia che siamo in grado di difendere razionalmente, con argomenti validi e fondati e che, presumibilmente e indipendentemente dalla teoria metaetica utilizzata, denigra la violenza sull’altro se non in rari contesti inerenti sopravvivenza e legittima difesa. Se invece giochiamo a fare i postmoderni, non abbiamo nessun motivo per definire falsi, in senso assoluto, enunciati come “il blitz contro il campo nomadi era lecito” e, l’unica cosa che possiamo fare, è denigrare tale atto perché illegale o, direbbero ancora i filosofi contro cui muove Ferraris, perché proviamo “solidarietà” con i nomadi colpiti. I postmoderni, in sostanza, non considerano quanto importante sia la nozione di verità e di giustizia (non giustificazione) nelle nostre pratiche quotidiane e quanto, quello che appare come un “semplice” problema di filosofia sia, in realtà, intimamente connesso alla nostra maniera di vivere il mondo. Se un nomade sporge denuncia per quanto successo, sarebbe certo entusiasta di avere “solidarietà” dai postmoderni, ma ciò di cui soprattutto necessita sono risposte vere riguardo l’ingiuria che ha subito: verità non contestuali o legali, ma oggettive riguardanti, ad esempio, la violazione dei
soggetti di una vita, direbbe il filosofo giusnaturalista Tom Regan, che è avvenuta in quell’attacco ingiustificato e ingiustificabile al campo in questione. E sempre il caso delle Vallette consente un ulteriore punto di analisi per il discorso che abbiamo compiuto: la menzogna della ragazza che ha millantato lo stupro, di cui poi il corteo della follia ha fatto pretesto per distruggere le baracche dei nomadi. Una menzogna è tale, solo perché definita in contrapposizione ad una verità; ovvero, o la ragazza è stata violentata o non è stata violentata. Qui non c’entrano le “questioni di potere” che Vattimo vede nell’atteggiamento di chi grida al vero, c’entra un mero e semplice atto che, o è avvenuto, o non è avvenuto. E se come dice Alessandro, il fratello della ragazza sedicenne che ha denunciato (e poi ritirato) le violenze sul suo corpo, è stata tutta una menzogna, allora è vero che questa ragazza è stata una bugiarda. Come ammette sempre lo stesso Vattimo, in dialogo con Ferraris il ventisei Agosto 2011 su
Micro Mega, per «smentire una bugia devo avere un riferimento altro», e non basta accusare questo “altro riferimento” di essere autoritario o di parte: in certe questioni, la critica postmoderna alla verità è puro
divertissement intellettuale. Senza la verità il mondo non può essere pensato, con buona pace di
Jacques Derrida e colleghi, e questo deve spingere il dibattito filosofico, anche se sui media, ad affinare i concetti che così sommariamente vengono discussi e che, come nota Franca D’Agostini il ventotto Agosto sempre su
Micro Mega, senza un giusto approfondimento rischiano di rimanere ancorati alla discussione da bar.