(Fatima, 15 agosto 2002)
Il sole ferragostano cuoce alla griglia le pietre antiche del castello di Tomar, deflessioni e rifrazioni incidono geometrie ottiche tra la luce e l’ombra. Io arranco a fatica su per i gradini, per le sale del Convento, le gambe di cemento e la sciatalgia che mi morsica la schiena. “Stai bene?”, chiede impensierita Giulia. E no che non sto bene, vampate di calore si alternano a brividi gelati. Sarà mica la vendetta dei Templari. Deliro. La chiesa ottagonale come il Santo Sepolcro, la finestra in stile manuelino, il claustro grande. Termino la visita a pezzi e bocconi, il fiato rotto e tutto il resto. “Te la senti di guidare?”. “No te preocupe”. Fino a Fatima, dove abbiamo prenotato l’albergo, c’è poco più di mezzora.
L’auto si adegua docile ai sinuosi saliscendi attraverso colline color smeraldo. Nuvole di spugna soffice si rincorrono veloci nell’azzurro. La mia mente deriva spaesata a se stessa. Tomar, i Cavalieri di Cristo, il Bafometto, i Rosacroce, il Graal. E poi Fatima, le apparizioni, il terzo segreto, i miracoli, le candele che ardono nel braciere, i penitenti in ginocchio, le preghiere e le lacrime, l’odore d’incenso frammisto a sudore. Nel viaggio di attraversamento tra la realtà e la finzione, temo di aver confuso il biglietto d'andata con quello di ritorno. Forse è per questo che mi sento così male.
Arriviamo in stanza che sono le cinque del pomeriggio. Scosto le tende, vista sul campanile della basilica. No, ancora. Basta con le suggestioni. Misuro la temperatura: trentottogradiemezzo. “Senti, mi metto nel letto per qualche minuto…”. Mi addormento invece a filo di piombo. Il suono delle campane mi riesuma soltanto alle sette. “Come stai?”. Come sto? “Bene, credo bene. Ho fame”. “Sai che novità!”. Faccio una doccia calda per riconnettermi con il mondo. “Sono sfebbrato. Andiamo a mangiare qualcosa?”. “Uhm…” “¿Por qué no, señora? Sopa, pescado, vinho verde. Y sobremesas, si tú vuelves”. Giulia sgrana gli occhi: “Mi sa che la Madonna ti ha fatto davvero la grazia”. Sorrido, di un sorriso illuminista. E le mostro la boccetta di Novalgina.