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Per i coreani ogni uomo ha tre anime, una delle quali rimane nella tomba insieme ai resti mortali del defunto e le altre due invece sono destinate a distaccarsene, una per dimorare nelle tavolette mortuarie che i parenti espongono nelle proprie case per onorare il caro estinto e una per recarsi nell'aldilà, ovvero in uno dei numerosi “regni” o “cieli” ultraterreni governati dal dio Haneullim (Hananim). I riti e le preghiere dedicati ai defunti nella tradizione servono soprattutto per rabbonire gli spiriti malevoli di modo che non interferiscano con gli affari dei vivi. Ma, differenze ideologiche e culturali a parte, la morte fa paura a tutte le latitudini e però il tutto di cui facciamo parte continua ad esistere anche una volta che uno dei suoi componenti viene a mancare, proprio come il nostro organismo sopravvive alla morte quotidiana delle sue cellule e dei suoi tessuti, com’è giusto che sia. La morte è necessaria per l’equilibrio della vita. È in questo senso che i morti vanno lasciati andare, senza stimolarne legami innaturali, attaccamento o nostalgia per un mondo, quello reale, che più non gli appartiene. Saggiamente, quindi, la Sun-min di “The voice” si allontana dall’amica Young-eon, non per cancellarne il ricordo ma perché è necessario accettare la sua morte per far sì che lei stessa la accetti (incidentalmente questa le ha nascosto più di un segreto e lei lo ha intuito prima ancora di averne la certezza, minando alla base la loro amicizia, ma anche se così non fosse questo non sposterebbe di un millimetro la questione). Un analogo allontanamento tra vivi e morti è il mesto epilogo di tutti i film della saga, incluso l’ultimo “Whispering Corridors 5: A Blood Pledge”: vedremo come lì, paradossalmente, la dipartita del fantasma della povera Eon-ju servirà a rinnovare il suo legame (il suo patto, per parafrasare il titolo del film) con l’amica So-hee. A proposito… Dopo l’elemento folcloristico di “Wishing stars” fa capolino nella saga anche quello religioso, dato che il successivo “A Blood Pledge”, di cui parleremo più diffusamente nel prossimo post, è ambientato in una scuola cattolica. Sorpresi?
In effetti, la struttura scolastica messa in piedi e mantenuta da cattolici e protestanti nel paese è imponente e comprende anche un buon numero di università, e la percezione dei coreani è che siano tra le migliori dal punto di vista educativo, dei valori umani prima ancora che da quello prettamente scolastico. (Visto e considerato quello che avviene nella cattolicissima scuola di “A Blood Pledge” la cosa si tinge di macabra ironia, ma se ciò sia stato fatto di proposito per criticare o ridicolizzare questo tipo di istituzioni in particolare non è dato sapere). L’aspetto religioso nel film è solo iconografico, d’accordo, e né il movente né lo svolgersi degli avvenimenti hanno una matrice religiosa, ma tanto basta. L’iconografia cattolica all’interno di questo film ha un effetto un po’ straniante, ed è strano perché in realtà la Corea è una nazione a forte presenza cristiana, con una crescita che negli ultimi cinquant’anni ha raggiunto livelli da record. Il Cattolicesimo è chiamato “la religione della mamma” (perché numerose chiese pongono al proprio ingresso una statua di Maria con le braccia spalancate in un virtuale abbraccio), e diversamente dallo Sciamanesimo non è una religione “povera” ma anzi è diffusa fin negli ambienti più elitari. Parlo ovviamente della Corea del Sud, perché come saprete al nord l’unico dio legalmente riconosciuto è il caro Kim Il-sung, il “presidente eterno” che, benché deceduto da oltre vent’anni, con il suo culto della personalità continua ad essere ben presente nella vita del paese (per qualche curiosità in più, se vi va, potete far riferimento a questo post).
Altro elemento significativo del quinto e ultimo capitolo, di cui vale la pena iniziare a parlare sin da ora (causa mancanza di spazio), è il suicidio, o meglio ancora il suicidio collettivo. “A Blood Pledge” è uno dei pochi film che siano riusciti ad affrontare l’argomento, decisamente spinoso, da un punto di vista analitico. Il suicidio collettivo non è qui solo un pretesto per spettacolarizzare la morte, bensì un’attenta esplorazione delle cause e degli effetti di un fenomeno, oggi molto più che allora, tristemente frequente, un'esplorazione che diventa introspezione psicologica quando indaga le motivazioni più profonde dei vari personaggi. Solo quattro anni fa una notizia proveniente, appunto, dalla Corea del Sud raccontava una vicenda di quelle che mettono i brividi: cinque ragazzi si conobbero tramite un sito clandestino specializzato nel mettere in contatto tra loro utenti con uno scopo comune, quello di togliersi la vita. I ragazzi, tre uomini e due donne, si incontrarono di persona e, insieme, raggiunsero il ponte sul fiume Bukhan a Gapyeong dove, facendosi coraggio a vicenda, si buttarono giù, nella corrente gelata del fiume in piena, dopo un salto di parecchie decine di metri. Una ragazza ventiquattrenne, unica sopravvissuta del gruppetto, raccontò in seguito agli ufficiali quanto era accaduto: i cinque, dopo un primo contatto online, già la sera precedente avevano provato a uccidersi con le esalazioni di gas ottenute bruciando carbone in una stanza, ma senza riuscirci. Questo era solo l’ultimo di una lunga serie di analoghi fatti avvenuti in territorio asiatico che, come già aveva pronosticato il regista Sion Sono nel film che lo consacrò (“Suicide Club”, Jisatsu Saakuru, 2002), sono i più folli e incredibili effetti collaterali della rete globale. Si direbbero leggende metropolitane, ma vi assicuro che basta inserire alcune parole chiave in qualsiasi motore di ricerca per trovarsi catapultati in uno dei peggiori incubi digitali. Un successo, quello del suicidio organizzato, che è parallelo al crescente fenomeno degli hikikomori, concetto nato in Giappone ma ampiamente esportato anche in Corea del Sud a causa delle forti similitudini culturali che la penisola coreana condivide con il Sol Levante. Nella lingua giapponese hikikomori è composto da due vocaboli: hiku (indietreggiare) + komoru (isolarsi), e sta ad indicare una vera e propria fuga dal mondo reale, volta a rintanarsi in un luogo angusto e protetto dove i rapporti sono filtrati e regolati dalla tecnologia. Migliaia di adolescenti decidono per una reclusione volontaria nella propria cameretta e lo fanno per l’incapacità di soddisfare le aspettative sociali e personali. Una diversa forma di suicidio, che non pone fine alla vita in senso lato, ma che nella sostanza non è poi tanto diversa. Ma perché prendono piede questi fenomeni? Storie diverse, motivazioni diverse, ma in tutto questo uguali sono le sofferenze: un brutto voto a scuola, una delusione d'amore, la mancanza di un lavoro stabile, i debiti da pagare, il sentirsi diversi o rifiutati dagli altri, la perdita di una persona cara. Suicidarsi non è mai facile. Bisogna fare i conti con la paura dell’ignoto, con il timore di provare del dolore, con il dubbio di non riuscire. E allora ci si rifugia in se stessi a tempo indeterminato, oppure ci si appoggia al collettivo, dove quel pezzettino di coraggio lo si assorbe dagli altri, dove ci si trova davanti alla necessità di rispettare un patto, l’ultima responsabilità che si ha nei confronti del mondo. Rimane tuttavia sempre aperta la questione. Perché? La risposta, come vedremo nel post che uscirà nei prossimi giorni, è forse più semplice di quello che crediamo.
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