Ci risiamo. Undici anni dopo il fallito golpe per destituire Hugo Chavez dalla presidenza del Venezuela, con l’aiuto nemmeno tanto dissimulato dei servizi segreti statunitensi, Washington ci sta provando di nuovo.
Subito dopo l’elezione del successore di Chavez, Nicolas Maduro, il 14 aprile, ottenuta da quest’ultimo con un margine di circa 300.000 voti, 50,75%, contro il 48,97% del suo oppositore Henrique Capriles, il governo americano non ha riconosciuto la legittimità della vittoria di Maduro e anzi ha cominciato a chiedere un riconteggio dei voti.
Nell’immediatezza del voto, mentre il Venezuela era preda di gravi violenze tra sostenitori dei due contendenti (soprattutto di Capriles, contrario ad accettare l’esito per lui negativo delle urne), Roberta Jacobson, vice segretario di stato per l’America Latina, a chi gli chiedeva se l’amministrazione Obama stesse considerando l’ipotesi di imporre sanzioni economiche se Caracas non avesse accettato il riconteggio delle schede, rispondeva di non saperlo.
Negli Stati Uniti, parecchi legislatori repubblicani facevano pressioni sulla Casa Bianca in tal senso.
Ad esempio, la deputata Ileana Ross-Lethinen, ma soprattutto il senatore della Florida, Marco Rubio, importante pedina della possibile legge di riforma dell’immigrazione, pilastro delle priorità legislative dell’amministrazione Obama nel secondo mandato.
Rubio, un repubblicano della comunità cubana di Miami, contraria al governo di Fidel Castro, ha esortato Barack Obama a non permettere al governo Maduro di assumere la sua piena legittimità, chiedendo un riconteggio dei voti.
In seguito, messo alle strette dal riconoscimento della vittoria del successore di Chavez non solo di governi di sinistra come Argentina, Brasile, Ecuador, Bolivia e Uruguay, ma anche di Messico, Colombia e Spagna, il nuovo segretario di Stato, John Kerry, è stato costretto a rivedere le posizioni americane, ma ha continuato a sostenere che per certificare la correttezza dei risultati sarebbe stato auspicabile un “audit”, una verifica del processo elettorale.
Un po’ come era successo, a parti invertite, nel 2002, quando, all’epoca del colpo di stato contro Chavez, solo gli Usa di George W. Bush e la Spagna di Josè Aznar avevano riconosciuto il nuovo governo golpista di destra, mentre nessun governo sudamericano l’aveva fatto.
Poi, qualche giorno fa, le autorità di Caracas hanno arrestato un giovane film maker americano Tim Hallett, nel paese per girare un documentario, con l’accusa di aver fomentato episodi di violenza, subito dopo il voto, per creare caos e confusione e innescare una vera e propria guerra civile.
Secondo quanto riportato dal governo venezuelano, Hallett sarebbe una spia americana infiltrata con l’obiettivo di fornire fondi finanziari a forze di estrema destra per creare scompiglio e destabilizzare il Venezuela.
Esisterebbero anche dei video che documentano passaggi di denaro per provocare atti di violenza e, anche in questo caso, non vi sarebbe nulla di nuovo.
All’epoca del golpe contro Chavez e negli anni successivi, gli Usa, avvalendosi di organizzazioni come il Ned, National Endowment for Democracy, una organizzazione volta a favorire la diffusione della democrazia, voluta da Ronald Reagan e largamente finanziata dal Congresso americano, fecero di tutto per destabilizzare il governo di Hugo Chavez.
Tutto questo mentre il nuovo governo di Nicolas Maduro sta tentando di normalizzare le relazioni con Washington.
Già il giorno successivo alla vittoria, il neo presidente avrebbe contattato Bill Richardson, ex governatore del New Mexico ed ex ministro dell’energia di Bill Clinton, per farlo latore di un messaggio per Washington.
Secondo Richardson, Maduro gli avrebbe espresso l’intenzione di migliorare le relazioni bilaterali tra Usa e Venezuela.
Poi, proprio nel bel mezzo degli scontri tra i sostenitori di Capriles e quelli di Maduro (verosimilmente favoriti da finanziamenti americani), il successore di Chavez, pur accusando gli Usa di interferire negli affari interni del suo paese, ha nominato un nuovo incaricato d’affari venezuelano a Washington.
Non si tratta di un nuovo ambasciatore, di cui i due paesi sono privi da tempo, ma è un passo importante in direzione di un nuovo dialogo con gli Stati Uniti.
Nonostante ciò, l’atteggiamento americano verso Caracas non è mutato di molto, anzi, la stessa attitudine dell’amministrazione Obama verso l’intera America Latina non sembra molto diversa da quella di George W.Bush.
Appare infatti estremamente indicativo il modo con cui il segretario di Stato Kerry ha parlato del Sudamerica.
In una audizione di fronte alla Commissione Esteri della Camera, lo scorso 18 aprile, l’ex senatore ha usato il vecchio caro termine di America Latina come “cortile di casa” degli Stati Uniti.
Una definizione poco rispettosa dell’autonomia di tali nazioni e che riporta alla mente la dottrina Monroe, origine, dall’800 ad oggi, di innumerevoli sbarchi di marines per riportare nell’alveo del dominio “yankee” ogni governo sudamericano tentato da strade autonome e originali.
Neanche Bush, nel vertice di Mar del Plata del 2005, era arrivato a usare tale espressione offensiva.
Del resto, proprio come era capitato all’ex governatore del Texas con la strombazzata minaccia alla pace dell’Iraq di Saddam Hussein, largamente ignorata dalle nazioni sudamericane, anche Obama ha subito la stessa sorte riguardo l’Iran.
Secondo un sondaggio condotto in sei paesi latinoamericani, Brasile, Venezuela, Argentina, Colombia, Cile e Perù,tra il 2 e il 5 marzo scorso, ben l’89% degli intervistati non condivide l’opinione di Washington sull’Iran come principale minaccia alla stabilità del Medio Oriente, segno tangibile del progressivo distacco delle opinioni pubbliche sudamericane dalle posizioni Usa.
In definitiva l’amministrazione Obama, malgrado alcune prime affermazioni incoraggianti, appare ormai decisa a seguire una politica latinoamericana in tutto e per tutto simile a quella del suo predecessore.
Ne è un indicatore importante il prossimo viaggio di Obama in Messico e Costa Rica,tra il 2 e il 4 maggio prossimo.
Il primo condivide migliaia di chilometri di confine con gli Usa ed è considerato una nazione in movimento verso uno sviluppo economico che può essere importante anche per il consolidamento della ripresa americana.
Il nuovo presidente Enrique Pena Neto sembra riscuotere il favore di Obama e, secondo alcuni, potrebbe svolgere lo stesso ruolo ricoperto, a suo tempo, da Alvaro Uribe in Colombia nelle relazioni con gli Usa di George Bush.
In sostanza, il presidente democratico appare propenso a rafforzare i legami con quei paesi latinoamericani tradizionalmente amici di Washington, dimenticandosi o destabilizzando quelli più ostili o non allineati con i propri desiderata, secondo uno schema già seguito da Condoleezza Rice, con la sua “inoculation strategy” degli anni di Bush: una riproposizione in chiave moderna dell’adagio romano del divide et impera.
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