di Emilio Carnevali. Tratto da “In difesa di Barack Obama” e-book edito da MicroMega online
Per molti esponenti della destra Obama è un estremista di sinistra che ha approfittato della crisi per realizzare il sogno di un Big Government, ovvero di un gigantesco apparato burocratico capace di insinuarsi in tutti i gangli vitali dell’economia e soffocare, così, lo spirito di intrapresa individuale che ha plasmato la nazione americana.
Per molti liberal ed esponenti della sinistra, invece, Obama è un presidente troppo centrista, troppo moderato, troppo accondiscendente nei confronti dei poteri forti dell’economia e della finanza; fin dal principio, infatti, il nuovo presidente ha cercato l’appoggio del mondo del Big Business, delle élites tradizionali e dei circoli della burocrazia politica da sempre al potere a Washington.
Lo proverebbero, innanzitutto, le biografie della squadra scelta per la nuova amministrazione: persone come l’attuale segretario al Tesoro Timothy Geithner, già sottosegretario del Tesoro ai tempi dei Bill Clinton, direttore del Dipartimento delle politiche di sviluppo del Fondo Monetario Internazionale (2001-2003) e presidente della Federal Reserve Bank di New York (dal 2003). Oppure come Larry Summers: anch’egli con un passato nell’amministrazione Clinton (segretario al Tesoro dal 1999 al 2001), Summers era già stato consigliere economico di Reagan (dal 1982 al 1983) e capo economista della Banca Mondiale. Di quella stagione molti ricordano il “memo” in cui definiva «impeccabile» la logica economica in base alla quale i rifiuti tossici vengono scaricati nei paesi a più basso reddito. Divenne poi presidente dell’Università di Harvard, carica dalla quale si è dimesso nel 2006 anche a seguito delle violente polemiche scoppiate per delle sue affermazioni sulla minore predisposizione delle donne allo studio delle materie scientifiche e ingegneristiche.
Entrambi, Geithner e Summers, erano i “pupilli” di Robert Rubin, già co-presidente di Goldman Sachs prima di entrare nell’amministrazione Clinton. Rubin è stato il principale sponsor sulla sponda democratica del Gramm-Leach-Bliley Act, la legge che nel 1999 ha di fatto abrogato il Glass-Stegall Act, cioè la normativa approvata all’epoca di Roosevelt per separare attività bancaria tradizionale e attività bancaria di investimento. Il Gramm-Leach-Bliley Act fu la punta di diamante delle misure di deregolamentazione finanziaria varate nel corso degli anni Novanta: permise, fra le altre cose, la legalizzazione retroattiva della fusione fra Citicorp (la holding della banca commerciale Citibank) e Travelers Group (compagnia di assicurazioni che aveva acquisito due banche di investimento, Smith Barney e Shearson Lehman). Ne nacque il colosso Citigroup, per il quale andrà a lavorare, pagato a peso d’oro, lo stesso Rubin.
Perché, allora, Obama ha scelto proprio queste figure per il suo staff? Essenzialmente per tre ragioni: prossimità politica (quello era il “cervello economico” del Partito Democratico), voglia di rassicurare l’establishment e l’opposizione, e urgenza di avere a disposizione un personale rodato, capace di mettere le mani subito sulla macchina amministrativa, visto l’incalzare della crisi e il suo devastante potenziale. Alla luce di scelte simili, per qualcuno l’amministrazione Obama può addirittura essere giudicata in sostanziale continuità con quella di George W. Bush: tanto nella politica estera, dove è intervenuta una semplice, e ipocrita, “cosmesi retorica”, quanto nella politica interna.
La distanza fra i due ritratti – quello dell’estremista di sinistra e quello del politicante ostaggio delle lobby – è enorme. Per colmarla, e per avvicinarsi ad una immagine più veritiera ma anche più complessa, è necessario passare all’esame dei fatti.
L’analisi non può che partire dall’economia.
Che cosa ha fatto Obama per far fronte alla grande crisi deflagrata poco prima della sua elezione?
Innanzitutto non ha fatto cose radicalmente opposte a quelle che andavano fatte. Proprio le risposte sbagliate attuate dal presidente Herbert Hoover nel 1929 hanno condotto alla Grande Depressione degli anni Trenta.
Ottant’anni dopo le stesse ricette fallimentari sembravano tornate a godere di largo consenso. Nel gennaio del 2009 oltre duecento economisti delle università statunitensi hanno pubblicato un appello a pagamento sul New York Times e sul Washington Post per prendere posizione contro lo stimolo fiscale annunciato dal neoeletto presidente (le pagine sono state acquistate dal think thank ultraliberista Cato Institute). Fra loro anche tre premi Nobel per l’economia come James Buchanan, Vernon L. Smith, Edward Prescott, oltre agli italiani Michele Boldrin (docente alla Washington University di St. Louis ed editorialista del Fatto Quotidiano) e Alberto Bisin (docente alla New York University ed editorialista della Repubblica). «Non crediamo che più spesa pubblica sia la via per migliorare la situazione economica», si leggeva nel testo. «Più spesa pubblica non ha tirato fuori gli Usa dalla Grande Depressione negli Anni ‘30 e non ha salvato il Giappone dal decennio perduto negli Anni ‘90. Perciò, è un trionfo della speranza sull’esperienza [il riferimento sarcastico allude ovviamente al libro di Obama “L’audacia della speranza”, ndr] il credere che più spesa governativa aiuterà gli Stati Uniti oggi. Per migliorare l’economia la politica dovrebbe concentrarsi sulle riforme che rimuovono gli ostacoli a lavorare, risparmiare, investire, produrre». L’appello si concludeva con l’esortazione ad abbassare le tasse e ridurre la spesa governativa.
Secondo John Cochrane dell’Università di Chicago, anch’egli firmatario del documento, lo stimolo pubblico «non faceva più parte di ciò che è stato insegnato agli studenti universitari fin dagli anni Sessanta. [Le idee keynesiane] sono favole che si sono dimostrate false. Nei momenti di crisi è molto consolante rileggere le favole che ci raccontavano da bambini, ma questo non le rende meno false».
Barack Obama non ha dato retta a tutti costoro e ha attuato la più classica delle politiche keynesiane, con uno stimolo fiscale da circa 800 miliardi di dollari, il più grande nella storia degli Stati Uniti. Il piano (American Recovery and Reconstruction Act) è consistito in spese per infrastrutture, educazione, sanità, energie rinnovabili, espansione delle tutele ai disoccupati e sgravi fiscali diretti al ceto medio. È stata una misura approvata immediatamente, tre settimane dopo l’insediamento alla Casa Bianca. Ma, oltre ai prevedibili anatemi da parte dell’opposizione repubblicana, non sono mancati giudizi critici provenienti anche dalla sinistra liberal. L’economista e premio Nobel Paul Krugan, ad esempio, giudicò il piano «utile ma inadeguato» per le dimensioni della crisi. Lo stesso parere fu espresso da un altro premio Nobel orientato a sinistra come Joseph Stiglitz: lo stimolo «dovrebbe compensare il calo della domanda di beni e servizi formulata da un sistema economico nel suo complesso, ma è troppo limitato per riuscirci».
Occorre tuttavia ricordare che Obama è riuscito a conquistare i 60 voti necessari al Senato per approvare il pacchetto, superando così l’ostruzionismo dell’opposizione, solo portando dalla sua parte tre senatori repubblicani “moderati”. In cambio questi ultimi hanno chiesto un taglio dell’entità dello stimolo pari a 100 miliardi di dollari, in gran parte destinati al sostegno delle amministrazioni statali e locali.
C’era un altro modo per far passare quel provvedimento, magari di portata ancora maggiore degli 800/900 miliardi preventivati? Sì.
Obama poteva ricorrere alla procedura di riconciliazione (reconciliation), uno strumento legislativo che permette di sottrarre all’ostruzionismo dell’opposizione le modifiche di bilancio, limitando il dibattito e la possibilità di emendare il testo della legge. Tramite quella via sarebbe stata sufficiente una maggioranza semplice. Era per altro lo stesso dispositivo utilizzato da George W. Bush per i tagli fiscali approvati nel 2001 e nel 2003.
Perché non lo ha fatto? Certamente, almeno in parte, per un errore di valutazione politica intorno alla possibilità di coinvolgere l’agguerrita opposizione repubblicana nelle iniziative di sostegno all’economia. Ma anche per la scelta deliberata di non inaugurare la sua presidenza con uno strappo, con una misura “unilaterale”. Lui, il presidente che si proponeva di unire una «terra di fazioni in guerra e odi tribali», non voleva dare l’impressione di aver messo da parte così presto il suo profilo “post-ideologico” e moderato per ingaggiare un violento scontro parlamentare in un momento di massima emergenza nazionale. Ai suoi elettori aveva promesso una «Casa Bianca diversa» da quella dei tempi di Bush, «una Casa Bianca che avesse considerato una vittoria 51 a 48 come un richiamo all’umiltà e al compromesso piuttosto che come un mandato inconfutabile».
La strategia allora adottata è stata chiarita anche grazie alla pubblicazione del memorandum di politica economica preparato da Lerry Summers per il nuovo presidente nel dicembre del 2008. Nel documento di 57 pagine – reso pubblico nel gennaio del 2012 dal giornalista del New Yorker Ryan Lizza – si spiegava che era più facile intervenire in un secondo momento con ulteriori stimoli – nel caso in cui quello originario si fosse rivelato insufficiente – che ridurre un pacchetto eccessivo. Da qui la scelta di non “forzare troppo la mano” all’inizio del 2009.
Il problema è che dopo la tregua dettata dall’emergenza non si sarebbero più ripresentate occasioni così favorevoli all’intervento. Alla fine del 2009, dopo che la discesa dell’economia era stata arrestata, il dibattito pubblico si spostò bruscamente sull’eccessivo deficit del bilancio federale e cominciarono a montare prepotentemente le invocazioni di tagli e di smobilitazione delle misure di stimolo.
Nella primavera del 2010, ad esempio, l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) pubblicò un rapporto sulle prospettive dell’economia mondiale in cui si invitava con forza il governo americano a ridurre drasticamente la spesa pubblica e suggeriva alla Federal Reserve di alzare i tassi di interesse. Nessuno di questi due consigli sono stati seguiti, ma il mutato clima politico, favorito dal dispiegarsi del Tea Party, portò al trionfo repubblicano alle elezioni di midterm nel novembre del 2010. Da lì in poi l’iniziativa di governo sarebbe stata irrimediabilmente compromessa. Nel settembre del 2011 il Congresso ha bocciato – come da previsioni – il piano per l’occupazione da 447 miliardi di dollari presentato dal presidente. Ha inoltre vincolato la propria autorizzazione all’aumento del tetto legale del debito pubblico, scongiurando il default tecnico che in caso contrario sarebbe scattato nell’estate del 2011, ad una manovra di tagli e aumenti fiscali automatici finalizzata a riportare il rapporto deficit/Pil al 4%. In assenza di accordi bipartisan per evitarla – tutti i tentativi si sono rivelati fino ad ora fallimentari – l’“austerity automatica” dovrebbe diventare operativa dal 2013. Ma molto dipenderà dall’esito delle elezioni di novembre e dagli equilibri politici che si determineranno tanto alla Casa Bianca quanto al Congresso.
Nonostante gli errori compiuti con l’American Recovery and Reconstruction Act, Obama è stato l’unico leader Occidentale a mettere in campo una vera politica espansiva. E negli Usa la situazione non è precipitata proprio grazie allo stimolo dell’inizio del 2009, per poi mostrare i segni di una (lenta) ripresa.
Il livello della disoccupazione, però, è rimasto sempre elevato, arrivando a lambire il 10%: ma qui subentrano anche fattori legati alla struttura del mercato del lavoro Usa. Lo si evince con un esempio molto concreto, collegato al periodo immediatamente successivo allo scoppio della crisi: nel 2009 nella zona euro si è registrato un calo del Pil del 4,4%, per poi avere un piccola risalita del 2% nel 2010. Il Pil degli Usa è invece sceso del 3,5% nel 2009 ed è cresciuto del 3% nel 2010. A fronte di questi dati – più positivi per gli Stati Uniti che per l’Europa – la disoccupazione è passata nella zona euro dal 7,5% (nel 2007, prima della crisi) al 10% (nel 2010) mentre negli Usa l’incremento è stato assai maggiore: dal 4,6% (2007) al 9,6% (2010). Negli Stati Uniti il mercato del lavoro molto più “flessibile” – di fatto si possono assumere e licenziare liberamente i lavoratori – ha permesso alle aziende di approfittare della crisi per compiere robuste riorganizzazioni interne, con un ridimensionamento degli organici assai più accentuato di quello verificatosi nello stesso periodo in Europa.
Obama, inoltre, si è ripetutamente speso per convincere Angela Merkel ad ammorbidire la linea del rigore imposta dal governo tedesco a tutti gli Stati del Vecchio Continente dopo lo scoppio della crisi dei debiti sovrani.
Mentre negli Usa la politica riscopriva, pur fra molte contraddizioni, il pensiero di John Maynard Keynes, in Europa imperversava la tesi dell’”austerità espansionistica”, mutuata da uno studio originario del 1998 di Alberto Alesina e Silvia Ardagna. Secondo quella ricerca – intitolata Tales of fiscal adjustment e successivamente aggiornata (Large Changes in Fiscal Policy: Taxes versus Spending, 2010) – i tagli al deficit statale provocherebbero un effetto fiducia così potente da poter favorire l’espansione dell’economia nonostante la riduzione della spesa governativa. Un pensiero ben esemplificato dall’allora presidente della Banca centrale europea Jean-Claude Trichet in una intervista rilasciata alla Repubblica (giugno 2010): «L’idea che le misure di austerità possano innescare la stagnazione è sbagliata». «Sbagliata?», domandò dubbioso il giornalista. «Sì. In queste circostanze, tutto ciò che aiuta ad aumentare la fiducia delle famiglie, delle imprese e degli investitori nella sostenibilità delle finanze pubbliche giova al consolidamento della crescita e alla creazione di posti di lavoro».
Il modello è stato però confutato da uno studio pubblicato nel 2011 dal Fondo monetario internazionale, che prende in esame 173 casi di austerità fiscale in 17 paesi avanzati fra il 1978 e il 2009: le politiche di austerità provocano infatti la contrazione del prodotto interno lordo e l’incremento della disoccupazione. Ed è proprio ciò che sta avvenendo in Europa: dopo una timida ripresa nel 2012 è tornata la recessione.
Sempre secondo il Fmi, alla fine dell’anno il prodotto interno lordo nel Vecchio Continente dovrebbe contrarsi dello 0,3%; dietro questo numero ci sono, tuttavia, i cali ben più pronunciati di grandi Paesi come l’Italia (-1,9%) o la Spagna (-1,5%), per non parlare della situazione drammatica di Grecia (-4,7%) e Portogallo (-3,2%). Tutti questi Paesi saranno probabilmente in recessione anche nel 2013. Per gli Stati Uniti le stime sono di +2,0% per il 2012 e +2,3% per il 2013.
Tutto resta appeso, comunque, all’incognita di come evolverà la crisi finanziaria in corso nella zona euro: molti analisti ormai non escludono scenari ben peggiori di quelli appena tratteggiati, legati ad esempio ad una eventuale deflagrazione della moneta unica.
La stessa corsa di Obama per un secondo mandato dovrà fare i conti con un quadro economico assai problematico, dato dal rallentamento del ritmo di crescita del Pil Usa dall’inizio dell’anno e da una disoccupazione ancora inchiodata sopra l’8%.
La sua rielezione è tuttavia caldeggiata anche da molti di coloro che non gli hanno risparmiato critiche assai severe. «Il trionfo elettorale di Obama», ha scritto Paul Krugman nel suo libro “Fuori da questa crisi, adesso!” (2012), «rende naturalmente più probabile che l’America faccia ciò che è necessario per tornare alla piena occupazione».
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