di Luca Barana
La campagna elettorale negli Stati Uniti sembra finalmente entrare nel vivo anche per quanto riguarda il dibattito circa la politica estera. Mitt Romney ha infatti dato seguito all’annuncio dei mesi scorsi circa un suo futuro viaggio estivo in Israele, visitando appunto Gerusalemme e arricchendo il suo itinerario con altre due mete non banali: la Gran Bretagna e la Polonia. Le destinazioni prescelte dal candidato repubblicano non sono affatti causali, dato che Romney ha voluto sottolineare simbolicamente la propria distanza dalla linea politica assunta dal Presidente Obama. Se le differenze sul conflitto israelo-palestinese e il dossier iraniano sono già state affrontate, Romney ha individuato in Londra e Varsavia due interlocutori presso i quali sostenere con profitto la propria critica alla politica estera di Obama.
La Polonia è stata infatti oggetto di una delle prime e controverse decisioni dell’Amministrazione Obama. Il reset delle relazioni con la Russia della coppia Medvedev-Putin, voluto dal Presidente Obama per riguadagnare il sostegno russo su una vasta gamma di questioni a partire da quella del disarmo, ha avuto infatti come prima implicazione il blocco del programma dello ‘scudo spaziale’, sostenuto da Polonia e altri paesi dell’Europa Orientale in chiave anti-russa. Romney ha voluto assicurare gli alleati nella regione che simili concessioni non si ripeteranno.
La visita in Gran Bretagna dovrebbe invece significare un rinnovato impegno del futuro presidente repubblicano nel coltivare le relazioni con gli storici alleati europei in seno alla NATO, a partire dai britannici. Romney critica infatti la scarsa attenzione della presente amministrazione nei confronti dei partner europei. Sebbene la sua permanenza a Londra non sia stata immune da errori, che ne hanno messo in dubbio la credibilità in quando candidato presidenziale, essa affronta in ogni caso un tema fondamentale per i futuri equilibri internazionali: la futura postura internazionale degli Stati Uniti.
L’Amministrazione Obama non ha fatto mistero di considerare come principale priorità per la politica estera degli Stati Uniti quella di rafforzare la propria presenza nella regione dell’Asia-Pacifico. Nel momento in cui le spese militari americane sono oggetto anch’esse di possibili tagli nell’imminente futuro, è probabile che questa decisione abbia delle conseguenze sul dispiegamento delle forze e degli investimenti militari statunitensi nel mondo, Europa compresa. Se infatti il Congresso entro la fine dell’anno non troverà un accordo su un piano di riduzione del budget che renda più sostenibile il deficit fiscale, entreranno automaticamente in vigore degli importanti tagli alla spesa pubblica che riguarderanno anche il settore della difesa. Il cosiddetto fiscal cliff che gli Stati Uniti stanno per affrontare implica dunque un ripensamento delle priorità strategiche. In questo senso va interpretata la volontà di Romney di ribadire la propria vicinanza ai partner occidentali, mentre Obama pare metterli in secondo piano a favore del dialogo (e del confronto) con i principali attori della regione pacifica, Cina in primis. Ma Romney è davvero contrario alla politica ‘pacifica’ dell’amministrazione uscente?
Il secolo pacifico
La nuova strategia introdotta dalla presidenza Obama è ben sintetizzata dal Segretario di Stato Hillary Clinton nel suo articolo pubblicato da Foreign Policy nel novembre 2011, America’s Pacific Century. Riconosciuta la centralità della regione dell’Asia-Pacifico nelle relazioni internazionali contemporanee, la Clinton sottolinea come la politica estera americana debba adattarsi di conseguenza. L’obiettivo è quello di superare la distrazione strategica delle due guerre in Afghanistan e Iraq e aprirsi alle opportunità economiche che la crescita asiatica garantisce. Per ottenere tale obiettivo è necessario riaffermare il ruolo guida (pivotal role) degli Stati Uniti nella regione. Storicamente infatti il controllo dell’Asia Orientale è stato il fulcro dell’ordine internazionale a guida americana, ma esso è stato messo in dubbio dalle scelte politiche dell’amministrazione Bush. Da questo punto di vista, l’approccio di Obama e del suo team pare voler recuperare una certa continuità rispetto al passato, adattando però tale linea alle necessità odierne.
Il primo passo è costituito dall’approfondimento delle relazioni bilaterali con i più importanti partner nella regione. Le alleanze che legano gli Stati Uniti a Giappone, Corea del Sud, Thailandia, Filippine e Australia devono essere rafforzate, per mantenere il consenso politico circa la loro desiderabilità in patria e all’estero, e adattate alle nuove sfide regionali. Esse devono garantire l’efficienza e la complementarietà delle strutture di difesa di tali paesi. La scelta di stanziare circa 2500 militari nella base australiana di Darwin, da cui potranno operare anche senza il consenso del governo australiano, si è rivelata una decisa mossa in tale direzione, liberando fra l’altro Canberra dall’imbarazzo di dover approvare eventuali missioni nella regione. A fianco dei tradizionali partner regionali, sono poi presenti altri attori con cui ampliare i rapporti, a partire dalle democrazie di India e Indonesia, per passare alle organizzazioni multilaterali come ASEAN e APEC, il cui rafforzamento è vitale per la stabilità regionale.
Il programma di Romney non sembra differenziarsi eccessivamente da questa visione proposta dal Segretario di Stato. Il candidato repubblicano infatti enfatizza la necessità di approfondire le relazioni con gli alleati storici, le democrazie e le organizzazioni multilaterali della regione. La strategia di Romney appare poi concentrarsi maggiormente sul tema della liberalizzazione economica, proponendo la creazione di una Reagan Economic Zone, fondata sui principi del libero commercio e dei mercati aperti, fra gli Stati Uniti e le economie asiatiche. La materia su cui però i programmi appaiono divergere maggiormente, quantomeno nei toni utilizzati, riguarda la Cina, alla luce della cui crescita economica e geopolitica devono essere interpretati i nuovi equilibri in Asia Orientale e le conseguenti scelte degli Stati Uniti.
Il (futuro) Presidente e la Cina
A questo riguardo, le accuse che Romney muove alla gestione dei rapporti con Pechino promossa dall’amministrazione Obama appaiono colpire lo strumento di cui il Presidente ha fatto maggiormente uso nelle relazioni con il governo cinese: il pragmatismo. La stessa Clinton richiama questo approccio, parlando di un rapporto “basato sulla realtà, focalizzato sui risultati”, senza però dimenticare il rispetto e la promozione dei valori americani. L’amministrazione Obama, consapevole della crescente necessità di coinvolgere la Cina in quanto responsible stakeholder dell’ordine internazionale, ha assunto dunque una postura concreta, volta ad ottenere da Pechino concessioni e aperture positive. L’obiettivo era e resta quello di creare una partnership più estesa, nella convinzione che le relazioni fra i due paesi non debbano costituire un gioco a somma zero. Tale consapevolezza è avvalorata dall’inaugurazione dello Strategic and Economic Dialogue fra rappresentanti dei due governi, la più approfondita esperienza di cooperazione bilaterale promossa fra Stati Uniti e Cina.
Nelle intenzioni di Obama però, l’apertura pragmatica nei confronti della controparte cinese non corrisponde a una resa sui dossier che maggiormente surriscaldano la retorica anti-cinese a Washington. Lo stesso Presidente non ha mancato di rinnovare l’impegno degli Stati Uniti nella promozione dei diritti umani in Cina, sebbene tale affermazione sia stata poi spesso mitigata a livello pratico, come dimostra la firma nel 2009 di una dichiarazione congiunta dopo il primo viaggio del Presidente in Cina, in cui si riconoscono i core values dei due paesi sulla base dei quali costruire i futuri rapporti. Fra questi valori, da parte cinese va sicuramente annoverata la sovranità nazionale e il mantenimento dell’odierno sistema politico.
Così come non sono mancate critiche da parte di Obama alla politica monetaria cinese e alla supposta sottovalutazione dello yuan, che conferirebbe un vantaggio concorrenziale non indifferente alle imprese cinesi sul mercato americano. Tali posizioni sono fra l’altro quasi obbligate date le vicende economiche interne agli States, alla luce dei preoccupanti dati sulla disoccupazione. Romney non ha comunque mancato di criticare l’impianto della politica di Obama nel suo complesso, considerandolo un sintomo di debolezza, sia nelle sue aperture a Pechino, sia nelle flebili critiche alla politica commerciale cinese.
Al contrario, Romney attacca con toni ben più forti le politiche cinesi, imputando loro le difficoltà che l’economia americana vive negli ultimi anni. L’accento viene posto sui trasferimenti forzosi di tecnologia imposti dal governo di Pechino alle imprese statunitensi che intendono investire in Cina e sul furto di proprietà intellettuale, ma soprattutto sulla sottovalutazione artificiale dello yuan e sul conseguente deficit commerciale degli Stati Uniti.
Romney si impegna dunque nel primo giorno di insediamento ad emanare un executive order che porti il Dipartimento del Tesoro a definire la Cina in quanto currency manipulator. Le ripercussioni di tale decisione sarebbero rilevanti, a partire dalla possibilità di imporre delle barriere all’import cinese in caso di mancato adeguamento dello yuan a un livello ritenuto consono. L’obiettivo dichiarato di tale provvedimento, a fianco degli altri che Romney si impegna ad adottare fin da subito come la riduzione immediata delle corporate taxes al 25%, è di rilanciare l’occupazione negli Stati Uniti, legando ancora una volta politica estera e andamento dell’economia interna.
Un’altra promessa da parte del candidato del GOP è quella di premere sul governo cinese perché limiti le discriminazioni nei confronti delle imprese statutinensi, aderendo al Government Procurement Agreement del WTO, che vieta ai governi di discriminare le imprese straniere a favore di quelle nazionali. Le pressioni per l’adesione cinese al GPA e affinchè Pechino agisca per un riequilibrio dello yuan puntano a ridurre il deficit commerciale americano, che nella situazione attuale contribuisce a generare quella che il programma di Romney definisce una pericolosa One-Sided Relationship alimentate dalle errate scelte di Obama.
In conclusione, l’approccio dei due candidati riflette in ogni caso la rinnovata centralità della regione dell’Asia-Pacifico nella politica estera americana. Romney dunque non sembra voler negare la ratio alla base dalla politica di Obama: il Pacifico sarà il fulcro delle future relazioni internazionali. Senza dimenticare che anche il candidato Obama utilizzò toni molto più sostenuti durante la sua campagna rispetto poi a quelle mantenuti da Presidente nei confronti della Cina, oggi ci si interroga quindi se la retorica di Romney rifletta le intenzioni di un’effettiva politica più assertiva nei confronti di Pechino oppure, come appare più probabile, costituisca un’abile mossa elettorale per soddisfare le paure e le preoccupazioni economiche dell’elettorato americano. Molto dipenderà da come Romney darà seguito ai suoi proclami, in caso di elezione.
*Luca Barana è Dottore in Scienze Politiche (Università di Torino)