Magazine Racconti

Òbitus (prima parte)

Da Villa Telesio

La tortura di un cataro

Era un poeta titubante sul da farsi e sui perchè. Non aveva mai tenuto in grande considerazione né i tramonti né gli incidenti d’auto. Gli sembravano manifestazioni simili di un fenomeno di mescolamento mediocre di colori, prevalentemente tendenti al rossiccio. Nulla che potesse interessarlo meno, visto la sua insopprimibile credenza in un mondo in bianco e nero. Illusioni giudicava il sovrapporsi di immagini variopinte dei suoi amici installatori, illusioni le esuberanti e malefiche pennellate del suo ex compagno. Così, controvoglia, quasi sbadatamente, si apprestava a partecipare alla cena in casa di U., talentuoso pittore marchigiano, tenuto in gran conto (ovviamente) dalla critica romana, dai vari Lauri e Tonini. Non cedette dunque alla tentazione di un gelato serale in solitudine, nel cruento buio del parchetto tossico vicino casa, come al solito tenendosi aggrapato a quel bastone magico irlandese vinto in una lontana asta, nella portuale e sporca Marsiglia. Ma prima doveva mettere a punto una strategia combattiva, grigia, mediocre. Puntava al silenzio.

 

L’ultima sua creazione era l’Augustinus, una sorta di poemetto anticlericale, basato sulle testimonianze di alcuni giansenisti palermitani che nel 1701 venerro condannati a morte per eresia. Una lucrevole iniziativa poetica da lui giudicata assolutamente insipida, tiepida più che rovente. Ma necessaria perchè prevista dal contratto con la casa editrice e perchè ulteriore tappa di avvicinamento a quello che il poeta considerava il suo capolavoro: l’Obitorio dei colori, vero e proprio monumento al grigio, un assoluto Moloch benigno che avrebbe definitivamente abbattuto il Dio-Colore tanto caro alle moderne arti. Un’idea malsana nata e sviluppata nei secoli artistici da Goethe e altri, dalla Teoria dei colori al qualunquismo pittorico moderno. L’arte doveva essere mediocre, silenziosa, senza scopo: questo era stato il risultato di un tormentato percorso che lo aveva portato a gestire con grazia inutile i suoi versi, condendoli di noia e apatia, rendendoli asettici e inconcludenti. Perchè era assurdo, per lui, questo trionfo polemico e pretenzioso di novità letterarie, sperimentazioni, sconvolgimenti artistici destinati alla nicchia di cultori di una nuova società fondata sulla malinconia sorridente, sulla gioia pittorico-politica. Considerava le arti moderne uno scivolone nella strada tracciata nel grigio che aveva imparato ad amare negli anni giovanili, quando faceva il ferroviere e manovrava scambi, e non aveva mai visto nulla di più poetico della ruggine, dei treni lenti e inquinanti, dei passeggerri stanchi e sputacchianti. Quello andava descritto con noia, perchè quella era la vita e quella dunque l’arte della vita. Noia, apatia, abbrutimento. Voleva – con l’Obitorio – far rientrare l’arte nel binario della mediocrità che era l’unico binario che l’umanità sapeva percorrere. Il resto erano pretese di drogati dai colori, di occhialuti e scapigliati barboni ricchi. Come i suoi prossimi commensali che intendeva stupire per aprire i loro occhi alla vera realtà. Puntava, dicevamo al silenzio.

— continua


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