Quando la voce lo raggiunse, Arhat stava camminando con alcuni amici sulla strada antistante la moschea dell’Iman. Gli ci volle un po’ a fare ordine nelle parole. Aveva ancora lo sguardo allacciato ai minareti, alle cupole, ai portali intarsiati, ai marmi, alle piastrelle multicolori e ai mosaici all’ombra dei quali aveva trascorso la mattinata conversando.
La voce era quella di un suo compagno di corso. Lo raggiunse alle spalle. E una volta vicina, impaurita e ansimante per il dubbio d’essere stata pedinata da orecchie invisibili, gli riferì che erano andati a cercarlo addirittura all’Università.
Erano in cinque, in borghese. “Sono sbucati d’un tratto. Sapevano tutto. Hanno portato via con loro quelli che hanno trovato, e sono andati a scovare nelle case quelli che ancora mancavano. O forse l’inverso, prima casa, poi Università. Non so.”
Il fatto era che tra quei nomi compariva anche il suo. L’avevano ripetuto più volte, nei corridoi, nelle aule, avevano chiesto “conoscete Arhat Yalik?” Proprio così, avevano usato il suo vero cognome. “Yalik” avevano detto.
Arhat ancora non capiva.
Tutto quel trambusto per uno come lui che non contava nulla, perché? E poi, mica si poteva andare a prendere le persone così, in pieno giorno, come randagi da rinchiudere in un canile.
“A no?” si sentì rispondere. “Nooo?”
“Arhat Yalik” continuò la voce mischiandosi ad un’altra che si era messa in quel momento a battergli nella testa “studente universitario, redattore della rivista Libertà e Diritti, comunista, curdo.”
Ancora non capisci?
E lui finalmente capì.
Avrebbero avvertito la sua famiglia. Nessuno sarebbe dovuto andare a reclamarlo davanti ai cancelli di alcun ufficio. Si sarebbero tenuti in contatto.
Presero accordi scambiandosi abbracci. Arhat scrisse due bigliettini. Uno per suo padre, l’altro per la sua promessa sposa. Pregò che fossero consegnati quella sera stessa. E solo dopo che fu salito sulla corriera che da Esfahan doveva portarlo a Kermanshah, mentre guardava il fiume Zayandeh allontanarsi quieto per andare a morire lontano nel Golfo Persico, solamente allora, pianse.
Un uomo nelle ultime file stava intonando l’Esfahān nesf-e jahān. Lui osservava le culture d’orzo e tabacco scivolargli davanti come eserciti silenziosi, seguite dalle distese di frutta e di cotone. Pensò a sua madre. Pensò alla donna che amava e al mondo in cui avrebbe voluto vivere. Pensò a se stesso bambino, mentre spingeva una barca nel cuore del fiume e qualcuno gli raccontava antiche storie di guerre e di scià. E si chiese dove poteva andare. Considerò gli altipiani infiniti e secchi del Turkmenistan e dell’Uzbekistan, e il dolore senza più suono dell’Afghanistan, a est. Non c’era più nulla che già non conoscesse a est. Niente di buono. Niente che potesse dargli il barlume di un domani. A est c’era l’est, mischiato a tutto il peggio dell’ovest.
Poi considerò l’ovest.
Considerò la catena montuosa degli Zagros, il lago Urmia, i territori desolati nel nord dell’Iraq, dove a quelle del conflitto si alternavano notizie di aggressioni, di deportazioni, di repressioni e d’uso d’armi chimiche, soprattutto ai danni dei curdi.
Esfahān nesf-e jahān continuava a sentir cantare alle sue spalle. Vide la vetta del Zard Kuh comparire nella distanza e chiuse gli occhi.
“Sì?”
“La signora Giorgi?”
“Sì?”
“Professoressa d’italiano?”
“Sì.”
“Ha un minuto?”
E in quel minuto le viene spiegato che al Centro d’Accoglienza di Semirano sono arrivati duecento immigrati clandestini. Ci tiene a precisarlo la voce, che sono clandestini.
Queste duecento anime vanno tenute occupate in qualche modo.
“Ché a passare tutti i giorni così a non fare niente, chiusi in un recinto, lei lo sa cosa si finisce per fare.”
Silenzio.
“Si finisce per pensare troppo.”
Al Centro d’Accoglienza di Semirano di gente che pensa troppo preferiscono non averne. Non vogliono problemi a Semirano.
“Ce li mandano su da Bari. Là non sanno più dove metterli. E noi li teniamo finché non viene deciso cosa farne. Il più delle volte chiedono asilo politico, ma non possiamo dare asilo politico a tutti, lei capisce.”
Ancora silenzio.
“E quindi devono essere identificati, si immagini. Dal primo all’ultimo. E poi rispediti ognuno a casa propria. Procedura complessa e costosissima. Nel frattempo però vanno gestiti.”
La professoressa Giorgi preme la cornetta sull’orecchio. È un po’ sorda. È in pensione da molti anni. Passa le sue giornate a leggere quotidiani o a camminare sul lungomare. Di spendere alcune mattinate a insegnare italiano a degli immigrati – a dei clandestini – per far loro passare il tempo in attesa che vengano rispediti a casa, non le dispiace affatto. La ritiene una crudeltà, un inganno. Ma accetta.
“Ci rifaremo sentire noi nei prossimi giorni” le viene detto.
Ma nelle settimane successive non riceve più nessuna chiamata.
Finché decide di recarsi lei al Centro.
Il Centro è uno di quei luoghi che negli anni sessanta costituivano il fiore all’occhiello dell’edilizia italiana ma adesso paiono uteri sfatti da cui sono fuoriusciti solamente cervelli deformi.
Viene fatta accomodare in un ufficio con le pareti ricoperte d’intonaco che casca a pezzi. Vesciche d’umidità che pendono ovunque dal soffitto. Qualcuno dietro una cattedra da scuola media la ringrazia per l’interessamento e per il “senso civico”, e la informa che l’emergenza in realtà è passata. “Il numero dei nostri ospiti è drasticamente calato,” dice proprio così, ospiti. E poi, drasticamente.
Da duecento sono divenuti una decina.
“Almeno fino alla prossima ondata” continua la voce “è tutto sotto controllo.”
Ondata pensa la professoressa, fissa i pavimenti piastrellati, le cartine appese alle pareti come pelli sbiadite.
“E dove sono finiti gli altri?”
Il tizio tace. Prende tempo. Soppesa situazioni e conseguenze. Non c’è motivo di mantenere un atteggiamento di difesa a oltranza davanti a una vecchia, pensa, a una pensionata. Qualunque sia il mondo in cui questa signora ha creduto di vivere fino a quel momento non è lo stesso in cui sta respirando lui ora. Si schiarisce la voce, riposizionandosi meglio sulla sedia.
“Nelle strutture come la nostra” spiega, “ne arrivano a centinaia ogni mese. Lei somma le centinaia, e se ne ritrova di fronte migliaia. Sono gente senza nome. È come arginare una diga usando tappi di sughero. La maggior parte non vuole neppure restare da noi. Hanno parenti in Germania, in Francia, in Olanda, sono attratti dal mito della produttività settentrionale.” Si prende una pausa. “Il trucco è guardare altrove. Dar loro abbastanza da non farli pensare troppo e poi mettersi a guardare da un’altra parte. Che capiscano.”
La signora Giorgi non apre bocca. Il viso a indicare la domanda cosa.
Lui la invita ad alzarsi. La conduce verso la finestra. Le indica il perimetro. “Il muro c’è lo vede, corre tutto intorno al Centro. Ma non si è giunti fino a qui senza scavalcare qualche muro…” Si accende una sigaretta e le chiede di seguirlo fuori dalla stanza, nel cortile semivuoto.
“Il fatto, signora, è che non ci sono più gli ideali. Non ci sono più le ideologie. Non ci sono più i soldi. Soprattutto i soldi. Le risorse. Vede che adesso sta cominciando a capire anche lei? Allo scadere della prima settimana, la metà di chi è arrivato è già scomparsa. Volatilizzata. Una volta fuori non sono più un nostro problema. Due settimane e sono divenuti un terzo. Scappano durante la notte. Vanno oltre le alpi. Per la fine del mese sono rimasti solamente quelli che volevano qualcosa di differente da ciò che volevamo noi, o quelli che non lo sanno più neppure loro cosa vogliono. Quelli alle volte li rimandiamo indietro a forza,” dice fissando la professoressa Giorgi, ferma al centro del cortile come un palo arrugginito, “alle volte. Alle volte invece” continua, “finiamo per non sapere più nemmeno noi cosa farne.”
Dopo la terza lezione, Arhat comincia a parlare un po’ d’italiano.
Da quando è arrivato, di lui si sanno solamente due cose. La prima è che è curdo. La seconda è che è comunista.
Arhat non è scappato dal Centro perché ritrovarsi ogni volta in una terra dove fuggire è l’unica maniera d’essere, significa non essere mai in nessun luogo. E Arhat è stufo di non essere mai da nessuna parte. Ha deciso di non muoversi. Vedeva gli ospiti scavalcare le recinzioni ogni notte e il giorno dopo gli inservienti lo guardavano e dicevano “e tu?”
Yalik è un cognome curdo. Da dove proviene non può essere usato. Deve farsi chiamare con un cognome che non è il suo da dove viene.
Nel nord dell’Iraq ha visto i villaggi bruciati, ha visto la macchia del dolore prendersi un’altra fetta di terra e stringere. Allora ha risalito la linea delle montagne insieme ai randagi, mentre carovane verticali di fumo disegnavano crepe sull’orizzonte, e si è spinto fin dentro l’anima rannicchiata del Kurdistan mai nato. A chi glielo chiedeva rispondeva di chiamarsi Arhat Baykal. Ha raccolto tabacco sulle spianate a nord del Tigri e colorato per mesi lana mohair in capannoni bui nella periferia di Ankara. Inviava lettere che non sapeva se sarebbero arrivate.
Appeso alla cornetta di un telefono, nel Bosforo, ha scoperto che la sua promessa sposa era stata data in dote a qualcun altro.
Sòfia? Un supermercato.
La Macedonia? Un bosco di racconti senza fine.
Tirana? Adagiata sul suo cadavere.
Infine Bari.
C’è giunto con in testa una vecchia chiacchiera d’Università. Qualcuno, un tempo, gli aveva detto che in Italia c’era il più grande Partito Comunista d’Occidente.
Si era messo a domandarlo di nuovo, appena sbarcato, ma ancora rifiutava di credere alla risposta.
Che non esisteva più nessun Partito Comunista.
E forse – almeno così aveva mormorato il tizio del gommone, un momento prima di spingerlo in acqua – neppure più un Occidente.
Adesso salgono su per le montagne, Antonella Giorgi e Arhat Yalik.
Salgono su per i boschi di castagni e le valli risucchiate nei fiumi, superano le carbonaie abbandonate, i centri ristrutturati, le case mute, i sentieri di rovi e di mirtilli e i tornanti ombrosi. Arrivano a Bargherino, frazione di Semirano, dove una sede del Partito Comunista pare che ancora ci sia.
Chiedono all’avventore di un bar nella penombra, seguono il lastricato intessuto di sterpi fino a raggiungere un’insegna scolorita.
Arhat si guarda attorno. Bussa alla porta. Attende. C’è una luce accesa nel fondo di una stanza.
Ricomincio da qui pensa.
E sente un rumore di passi che si avvicinano.