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Odessa è un crogiuolo di popoli affacciato sull’immensità asiatica, è la culla di un cosmopolitismo per predilezione, prima ancora che per vocazione, è la memoria della vecchia Russia bianca che guardava all’Europa, con i tè all’aperto e le dame con le crinoline, è il porto da cui salpavano le navi cariche di cereali con i suoi rudi lavoratori, avvezzi alla fatica e alla vodka. Le terme frequentate dall’aristocrazia e il sogno del riscatto sociale.
Isaac Babel, figlio di Odessa, quel sogno se lo fece suo per intero e prima ancora che scrittore fu militante bolscevico. Negli anni eroici della rivoluzione prestò servizio nel controspionaggio, lavorò come traduttore per la Cheka – cioè per la polizia politica istituita da Lenin – e si occupò della requisizione dei viveri. Nel 1920, quando ancora infuriava la guerra civile fu assegnato all’armata a cavallo che provò a esportare la rivoluzione fuori dalla Russia e arrivò fin quasi a Varsavia, per essere poi ricacciata indietro.
Da questa esperienza venne fuori il suo capolavoro, L’armata a cavallo, appunto. Oggi è giustamente considerato uno dei libri imprescindibili del Novecento, ma allora la pubblicazione gli costò cara. C’era troppa verità, nella guerra che raccontava, ovvero troppa brutalità.
Altro che romanticismo rivoluzionario, ideali che volano alto: nelle sue pagine c’erano lo sporco e il sudore, i corpi sbudellati e i rivoli di sangue, la ferocia gratuita e la follia dei comandi.
Si fece molti nemici, il povero Babel, ma dopo fu assai peggio. Arrivò Stalin, arrivo il plumbeo terrore degli anni Trenta. Gli orrori della guerra lasciarono il campo agli orrori di una collettivizzazione di un regime che aveva tradito se stesso.
Babel si distaccò ogni giorno di più dalla vita pubblica e dalla speranza che l’aveva animato negli anni precedenti. Ma questo ritrarsi non bastò a procurargli la quiete. Cominciarono a criticarlo per il suo “estetismo”. E’ un’accusa che oggi potremmo prendere per un complimento e in ogni caso accogliere come un legittimo esercizio di critica letteraria. Ma in Unione Sovietica, in quegli anni, essere bollati come “esteti” non era lieve: entravi di diritto nella poco raccomandabile schiera dei borghesi decadenti e irredimibili.
Nel 1934, al primo congresso dell’Unione degli scrittori sovietici Babel si strappò dalla bocca parole pesanti. Stava diventando il “maestro di un nuovo genere letterario”, proclamò: il “genere del silenzio”.
Poi ci volle poco perché tutto precipitasse.
“Ora verranno a cercarmi”, scrisse dopo la morte di Maksim Gorkij, lo scrittore nelle grazie del regime che finora era riuscito a proteggerlo. E così fu. Babel venne arrestato nella sua casa di campagna, portato alla Lubianka, processato, condannato.
Lo fucilarono agli inizi del 1940, anche se ufficialmente lo si disse morto in un campo di prigionia in Siberia: la vedova ci mise 15 anni per scoprire la verità
Dopo la morte di Stalin venne completamente riabilitato: per quanto potesse significare, a quel punto. Quanto ai suoi manoscritti, sequestrati dalla polizia segreta, non vennero mai più restituiti.
Che cosa c’era tra quelle carte? Qualche altro capolavoro?
Nessuno, temo, ci potrà più rispondere. Però una cosa è sicura: è solo un potere criminale, quello che ruba le vite, e con le vite la bellezza della vita, quella bellezza che emerge anche da una pagina scritta.
E pure questi sono crimini contro l’umanità.
(da Caduti dal Muro, scritto con Tito Barbini, Vallecchi editore)
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