diciassette di mattina presto. salgo con gli occhi appiccicosi di sonno e vedo che c’è un posto libero, uno solo, in mezzo alla folla, accanto a una zingara.
mentre mi avvicino per sedermi la ragazza si alza per scendere.
nell’istante in cui mi siedo capisco che era libero solo a causa di quella vicinanza non desiderata e penso: “tanto peggio per chi fin’ora ha evitato di sedersi!”
lo capisco perchè due persone sulla settantina si gettano sul posto accanto a me rimasto vuoto.
decido di non alzarmi, se si voleva sedere, la vecchia babbiona, poteva farlo benissimo prima che la ragazza dalla gonna a fiori scendesse dal bus.
accanto a me finisce il marito, o forse, il fratello di lei.
un signore dai capelli bianchi, la barba vecchia di qualche giorno, le unghie lunghe e un odore pestilenziale.
mi rattrappisco verso il finestrino, cerco di concentrarmi sul solitario di carte del cellulare, mia salvezza ogni volta che sul diciassette si presenta la necessità di alienazione immediata.
l’odore mi raggiunge e mi circonda, mi rintana sempre più verso il vetro, non sono educati gli odori, gli odori arrivano e si presentano, senza tanti complimenti.
un odore di vino, aceto, cipolle, mescolato a medicine, canfora, sudore, pipì e denti non lavati.
la stratificazione di una vita intera, di mille giorni di trascuratezza, di vecchiaia non accolta ma subita.
ho sperato scendessero presto, ci è voluta qualche interminabile fermata d’autobus.
puzzare è di certo un diritto inalienabile degli esseri umani.
ma a volte non è semplice accettare il puzzo altrui.