Quattro anni dopo il suo ultimo film da regista (L’uomo nero), Sergio Rubini torna con Mi rifaccio Vivo, una commedia surreale in cui un uomo, ossessionato dal rivale di una vita, decide di suicidarsi. Gli viene però data la possibilità di tornare sulla Terra per un’ultima volta e lui decide di sfruttarla per vendicarsi del suo acerrimo nemico. In realtà le cose finiranno molto diversamente.
Abbiamo incontrato il regista alla presentazione del film.
Dopo un thriller, un giallo ed un film drammatico torna nelle sale con una commedia, cosa l’ha spinta verso questo genere?
Io credo che ogni film, ogni storia, abbia il suo genere. Questa storia non poteva che essere raccontata in commedia. È l’autore che deve essere al servizio della storia e non viceversa. Un antagonismo così sfrenato che addirittura si produce in un suicidio, ma che finirà per tradursi in una grandissima amicizia è una parabola talmente grande che può stare in piedi solo in una commedia. Trattare il film in un altro genere sarebbe stato superficiale, una commedia, invece, permette di semplificare qualcosa di così complesso.
Come nasce la storia di questo film?
Questo è un film sulla conciliazione, sulla pacificazione: arrendersi all’idea di conoscere il nemico perché una volta conosciuto non ci farà più paura. Nel mondo globale non dovrebbe essere più necessario costruire roccaforti per escludere l’altro, bisognerebbe conoscerlo invece e porre fine all’antagonismo. Questa è l’idea da cui sono partito, poi su questo abbiamo costruito i personaggi. Il cinema può raccontare non solo la realtà, ma anche quello che sfugge alla realtà, come, ad esempio, un uomo che ritorna dalla morte per avere una seconda chance.
Il protagonista del film ha una seconda possibilità, lei cambierebbe qualcosa nella sua vita?
No, l’opportunità che la vita ti offre è di imparare dai tuoi errori. Se non li commetti non potrai mai imparare nulla. Inoltre io vengo da un piccolo paesino agricolo della Puglia…la mia vita è stata tutta una grande fortuna. L’unico rammarico che ho provato qualche tempo fa, quando l’Italia mi piaceva proprio poco, è stato quello di non essermi trasferito a lavorare all’estero quando ne avevo avuto l’opportunità, ma poi anche questo pensiero è rientrato. Credo che sia meglio che io resti nel mio paese, cercando, nel mio piccolo, di dare anch’io una mano.
Come in tutti i suoi film, lei è regista, sceneggiatore ed attore, quale parte è inscindibile dalle altre ed è la più importante?
Sicuramente la scrittura. Ho capito come fare cinema quando ho capito che è la scrittura il motore di tutto. È quando scrivi che riesci ad organizzare i tuoi pensieri, ma è anche il momento in cui sono proprio i tuoi pensieri ad organizzare ciò che fai. È la qualità della vita che amo mentre scrivo, tutto il resto è mediazione.
Il protagonista del film si sente tormentato dal personaggio di Neri, fino ad arrivare a suicidarsi. Perché lo fa? Quanto è simile questo caso ai ragazzi che ogni giorno si suicidano a causa di un bullo?
La sofferenza del protagonista è tutta interiore, è tutta sua, lui non è vessato dall’altro, ma nella sua testa ogni cosa viene esagerata. Questa è la storia di un’ossessione, non centra il bullismo. Da ragazzo ho sempre cercato di scostarmi da tutto ciò che era il “branco”. Ero un ragazzo timido con le donne e non mi interessavano né orologi né moto e loro parlavano solo di queste tre cose. L’ho sempre detestato e avevo anche paura di potermi improvvisamente ritrovare invischiato in queste dinamiche. Non c’è nessuna riconciliazione con un bullo.
Aveva già lavorato con Solfrizzi, mentre Lillo e Neri Marcorè sono attori che dirige per la prima volta, come ha scelto il cast?
Solfrizzi è stato il primo che ho scelto, avevo già lavorato con lui in un film drammatico, ma questa volta lo volevo come cascatore, come attore comico alla vecchia maniera, proprio com’è lui. Grazie ad Emilio ho scoperto Neri e la loro intesa di coppia comica ha fatto il resto. Infine Lillo ha chiuso il trio, è un attore bravissimo con cui spero di tornare a lavorare presto.
La parte femminile invece?
Sono partito da Margherita Buy e Valentina Cervi, con cui avevo già lavorato, che interpretano personaggi femminili molto nevrotici. A loro volevo contrapporre una donna che avesse una femminilità più risolta, più in pace con sé stessa. Così ho scelto Vanessa Incontrada perché ha una femminilità più convinta, che non spaventa. E’ un cast di cui vado molto fiero.
L’aldilà rappresentato nel film fa una chiara distinzione tra buoni e cattivi, è così che se lo immagina?
Non ce lo si può immaginare diversamente anche se può sembrare banale, perché è nell’al-di-qua che è tutto labile, tutto al contrario: gli sfruttati sono quelli che finiscono sempre male e gli sfruttatori vincono. L’aldilà deve essere così, giusto, del resto non abbiamo la prova che non sia così, no?
La fine del film è molto distensiva e va proprio nella direzione di quella riconciliazione di cui parlava all’inizio.
Sì, questa è una commedia per tutti. C’è il lieto fine e lo dico con una certa fierezza, perché oggi, in mezzo a questa crisi, un lieto fine è un atto di coraggio. Equivale all’indicazione di una strada. Lasciare un finale sospeso, cosa che mi ha sempre attratto soprattutto da ragazzo, è forse una scelta un po’ vigliacca in questo momento in cui bisogna uscire da un tunnel buio.
di Mara Telandro