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Oggi niente “pilu”. Parliamo di economia...domestica

Creato il 11 febbraio 2011 da Massimoconsorti @massimoconsorti
Oggi niente “pilu”. Parliamo di economia...domestica Ci siamo fatti un’idea del perché nessuno vuole investire in Italia, una di quelle intuizioni che vengono dallo “sciorinare i giornali”, come avrebbe detto quel maestro della comunicazione che si chiamava Ruggero Orfei. In poche parole la cosa consiste nel prendere quotidiani e riviste di ogni linea e tendenza politica, spargerli su un tavolo dopo averli aperti tutti alla stessa notizia e confrontare le versioni. “Ma attenti – ci diceva Orfei – la verità è nascosta fra le righe. Togliete tutte le parole uguali ed esaminate quelle diverse, la verità è la sintesi perfetta di tutti i termini disomogenei”. Sembra difficile ma non lo è e, ricordando il suo insegnamento, da un po’ di tempo ci siamo messi in testa di voler capire non solo perché nessuno investe in Italia, ma il motivo per cui chi lo ha fatto, e lo sta facendo, se ne va. Di casi come quelli della fabbrica di divise militari e giubbotti antiproiettile (di cui si è occupata ieri sera Annozero), ce ne sono a centinaia, noti e meno noti. Se ne stanno andando tutte, dalle fabbriche di scarpe a quelle di cosmetici, dall’industria di biancheria intima a quella dei profilati è un fuggi fuggi generale che non può essere solo colpa del costo del lavoro, probabilmente c’è di più. Gli ultimi due casi sono eclatanti. Prada, nel momento in cui ha deciso di entrare in borsa, ha scelto il mercato asiatico e si è quotata a Hong Kong, la Exor (cassaforte della famiglia Agnelli) ha compiuto la stessa scelta del colosso dell’high-style italiano decidendo di investire anch’essa ad Hong Kong. E Milano? La capitale lombarda sta a guardare, e stanno a guardare anche gli investitori che non ne possono più delle pretese di Bossi di spostare la sede della Consob da Roma a Milano dopo aver atteso 8 mesi la nomina del nuovo presidente nella persona del pidiellino doc. Giuseppe Vegas. Se alla “vacatio” della presidenza della Consob aggiungiamo quella ben più pesante del ministro per lo Sviluppo economico, ci rendiamo conto che parlare di politica industriale in questo paese è come voler affrontare il tema dei diritti umani in Corea del Nord: un controsenso esistenziale. Perché investire in una nazione che, ad esempio come nel caso delle infrastrutture, pensa all’inutile Ponte sullo Stretto e non a rendere funzionale la Salerno-Reggio Calabria? Perché produrre manufatti in Italia quando il percorso ferroviario che avrebbe dovuto aprirci ai mercati europei (parliamo della Torino-Lione) è già vecchio e non rispondente più alle logiche economiche che ne avevano consigliato la realizzazione? Perché investire al Sud quando occorre ancora pagare il pizzo alle mafie nonostante i successi della lotta alla criminalità organizzata sbandierati dal “governo del fare”? E perché continuare ad insistere sulla macrocriminalità quando esiste quella “micro” che prospera e della quale nessun giornale parlerà mai? Ci chiediamo per quale ragione un imprenditore, uno a caso, Rupert Murdoch, debba investire in Italia quando, entrando in conflitto con le imprese del presidente del Consiglio, si ritrova dalla sera alla mattina un aggravio dell’Iva che dal 4 passa al 20 per cento? E per quale ragione lo stesso Murdoch dovrebbe continuare a tenere aperta Sky quando, in barba al libero mercato, gli vengono negate le frequenze per il digitale terrestre? Questo mercato non sarà libero solo per Berlusconi? Ma continuiamo con le domande che ci siamo posti dopo la “sciorinatura”. A chi conviene investire in Italia quando potrebbe correre il rischio di trovarsi in rotta di collisione con le imprese del Capo ed essere sottoposto al "metodo Boffo"? Ma l’affaire Emma Marcegaglia/Il Giornale non ha insegnato nulla? A chi conviene investire nel nostro paese quando sa che la classe politica (con la quale dovrà necessariamente confrontarsi) è composta da mignotte, lenoni, tirapiedi e leccaculi? Di che tipo di attendibilità può godere il presidente della regione Lombardia se nel suo listino invece di un manager di chiara fama inserisce l’igienista orale di Berlusconi e il massaggiatore del Milan? E ancora, che idea potrebbe farsi del nostro paese un industriale francese dopo un quarto d’ora di chiacchierata con Renzo Bossi? E se qualcuno di loro dovesse preoccuparsi del sistema formativo italiano, che tipo di risposta potrebbe avere dopo aver letto il piano di riforma della scuola e dell’università della Gelmini e l’indifferenza con cui questo governo tratta la ricerca? Se uno investe in Italia lo fa anche per quel valore aggiunto che si chiama “creatività”, una dote che pone i nostri ricercatori fra i migliori del mondo e non certo per la bellezza di una ministra che non si sa bene da chi sia stata miracolata per occupare il posto che occupa. Insomma, alla fine abbiamo capito che se ci fossero le condizioni oggettive per poter investire nel nostro paese senza essere sottoposti a ricatti, malversazioni, processi mediatici, al chiagni e futti dei politici, alle tangenti al 30 per cento-quota-fissa, e ci fossero invece politici credibili, infrastrutture all’altezza e una effettiva e libera competitività, gli investitori stranieri farebbero a gara per una presenza in Italia, invece se ne tengono alla larga come se il Bel Paese fosse un lazzaretto a cielo aperto. Riflettiamoci un attimo. Perché Marchionne può fare quel che cazzo gli pare? Chi sono i suoi competitor? Con chi, concretamente, può parlare di politica industriale, con Romani? Siamo seri e pensiamo al nostro formaggio di fossa, magari qualche forma in Cina riusciamo ancora a venderla!

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