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Ok le regole. Ma le emozioni?

Da Paterpuer @paterpuer
Ieri sera avevo voglia di musica a palla. Samuele giocava coi trenini sul tavolo, io lo guardavo in piedi e Paola era seduta. La musica era alta. Paola mi dice: “Ma hai freddo?”, io: “No, è l’emozione della musica”. Mi sono accorto che mentre lo dicevo stavo guardando lui e non lei, e lui mi guardava.
Di fronte al fatto che un bambino non ha tutte le menate degli adulti e si scaccola quando ha voglia di scaccolarsi, mangia con le mani, imbratta con leggerezza la maglina bianca appena indossata, noi adulti siamo portati a pensare che impartire delle regole sia necessario. Anche io la penso così. Le regole servono ai nostri figli, sono limiti, convenzioni, codici, copioni, che danno sicurezza ai bambini e comunicano il fatto che esse fanno parte della normalità.Poi succede che la relazione fra grandi e piccoli sia molto più complessa e premiamo sul pedale delle regole quando la frustrazione di non capire o non saper gestire (termine brutto se si parla di persone) i comportamenti dei nostri figli ci mandano fuori di testa. Quando ci sentiamo illuminati siamo addirittura in grado di fungere da buon esempio sia per il rispetto delle regole, sia per la condivisione dei valori.
La realtà però è altra ed è spesso difficile da comprendere al meglio.
Ok le regole. Ma – per esempio – le emozioni? Come e quanto, dove e quando sappiamo far crescere i nostri figli anche sotto il profilo emotivo? Una buona scusa è sentirsi convinti del fatto che “queste cose non si possono insegnare” o addirittura sancire che “le emozioni è bene che ognuno impari a viverle da solo, sennò si rischia di perdere una parte importante della crescita personale, chi pretende di insegnare le emozioni vuole che i propri figli siano bamboccioni che non ragionano con la propria testa”.
La verità è (umilmente credo) che affiancare (è questo il termine esatto per una figura che stia educando) qualcuno nella propria crescita emotiva è terribilmente faticoso. Lo è perché impegna, lo è perché mette in gioco, lo è perché noi adulti abbiamo spesso un rapporto conflittuale con la sfera emotiva nel suo insieme, se è vero che qualcuno ha dovuto inventarsi l’esistenza di una “parte femminile dei maschi” per l’impossibilità di dire in italiano che gli uomini provano dolore, paura, gioia.
Come fare quindi? Come posso stare vicino a Samuele nella sua crescita emotiva? Non ho certo soluzioni, però inizio con il pensarci su, qualcosa verrà fuori…
Intanto la questione nazionale dei referendum: qualche genio ha detto che il voto è stato influenzato dall’onda emotiva dovuta al disastro nucleare giapponese. Niente di più cavernicolesco di considerare ancora (siamo nel 2011!!!) pensiero logico razionale e sfera emotiva come separati (con una immotivabile superiorità del pensiero logico razionale). Si può dire anzi che mai come in questo caso l’emozione ha illuminato il pensiero razionale sul fatto che i rischi ci sono. Cazzo, l’onda emotiva è stata proprio una cosa bella e sana!
Poi la questione dell’autostima, di come l’attaccamento genitori-figli sia determinante nella percezione di sé. Come un rapporto aperto e “amoroso” faccia crescere bambini equilibrati in grado di affrontare la vita, e come uno stile di attaccamento censorio o insicuro abbia ripercussioni negative sul modo di essere dei futuri adulti. Dallo stile di attaccamento (che in soldoni significa sapere che i nostri genitori ci amano) possono derivare sensi di colpa, anaffettività, sfiducia, ansia...
Negli altri ci rispecchiamo e i nostri figli hanno in noi un’immagine di loro stessi, se li amiamo impareranno ad amarsi perché le emozioni che esprimiamo si riflettono su di loro e risuonano fino a influenzare il loro stato d’animo. Se scarichiamo rabbia e frustrazione attiveremo stati d’animo corrispondenti. Attenzione però: anche noi abbiamo un’immagine di noi stessi attraverso di loro.
E quindi Samuele cosa ha da dirmi a proposito di me?
Specchiarmi in lui mi sovrasta, ha uno spettro emotivo decisamente più ampio del mio. Questo mi fa riflettere su quanto la vita rischi di incancrenirmi e di rendermi solo una persona che lavora, paga (o tenta di pagare) conti, tasse e bollette per poi dormire ed essere di nuovo al lavoro l’indomani. Questo non è un genitore,  non è nemmeno un essere umano. Per quanto mi riguarda non è neppure un organismo biologico. È un cyber-scrondo.
Allora lo osservo, cerco di guardare il mondo coi suoi occhi, di far battere il mio cuore in risonanza col suo. Lui dal canto suo sa bene come farmi emozionare (sa bene anche come farmi incazzare quel batuffolo!), gli basta uno sguardo, una parola.
Ma a che cosa servono le emozioni? Ed è sufficiente parlare di emozioni?
Per tutti è d’obbligo citare Goleman con i suoi lavori sull’intelligenza emotiva, saggi che al piglio divulgativo uniscono una documentazione accurata. Libri da leggere e rileggere, che possono “aprire un mondo”. Non sarebbe male, anche per curiosità, riuscire a trovare “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali” (1872) a firma nientepopodimenoche di mr. Darwin, il quale si avvalse della collaborazione di diverse decine di antropologi e studiosi in varie parti del mondo per corroborare l’ipotesi secondo cui esistono emozioni universali (Darwin descrisse una serie di espressioni facciali rilevate in Europa e associate a particolari emozioni: “Lo stupore viene dimostrato  spalancando gli occhi e la bocca e tenendo sollevate le sopracciglia”) condivise ovunque sulla Terra.
Nel corso dei decenni psicologi e psicofisiologi hanno dibattuto a lungo sul che cosa fossero le emozioni. Non c’era però una chiara distinzione tra emozioni, stati d’animo e sentimenti. Su che cosa sia l’emozione le teorie sono tante, a partire da quella di James-Lange (William James, psicologo e Carl Lange, fisiologo) che a fine Ottocento conclusero che le emozioni dovessero avere una componente fisica. Interessanti le ipotesi di Scachter e Singer che all’inizio degli anni Sessanta elaborarono un modello detto “teoria del juke box” che prevedeva la sequenza: stimolo-attivazione generalizzata-valore cognitivo-emozione. La teoria prevedeva che a fronte di un’attivazione fisiologica fosse la componente cognitiva a determinare il “segno” dell’emozione.Nel decennio successivo dominò la scena la teoria di Solomon e Corbit (teoria del processo in opposizione) secondo cui l’organismo produce sempre risposte emozionali opposte (la paura e il sollievo ad esempio); l’emozione in opposizione ha un’attivazione più lenta e ha la funzione di smorzare la risposta primaria per evitare sovraccarichi. In questo caso l’emozione “B” avrebbe anche il compito di preservare l’organismo e la specie perché emozioni troppo forti possono essere debilitanti o interferire con l’apprendimento di nuove informazioni.
Anche grazie ai contributi di Le Doux (“Il cervello emotivo” del 1998 è una gran lettura) si può definitivamente concordare (era l’ora dopo un secolo di teorie!) che le emozioni siano una componente fisiologica arcaica, primitiva, animalesca.
Sulla questione delle emozioni di base, se è universalmente condiviso il fatto che esistano, è difficile orientarsi.  Watson nel 1924 individua tre emozioni presenti già a livello neonatale: paura, ira e amore. Nel 1932 la Bridges classifica una serie di emozioni differenziate e complesse già all’età di due anni, a partire da uno stato di eccitazione indifferenziata proprio del neonato nei primi giorni di vita; secondo la sua teoria quasi tutti gli schemi di comportamento emotivo dell’adulto sono evoluzioni di queste emozioni “di base”. Schlosberg nel 1952 in una ricerca sulle espressioni facciali delle emozioni elabora uno schema che si estende lungo una doppia dimensione: piacevolezza/spiacevolezza, interesse/rifiuto; lo schema ricomprende all’interno di questi assi, qualsiasi emozione. Plutchick negli anni Ottanta determina 8 emozioni primarie (amore, ottimismo, aggressività, disprezzo, rimorso, delusione, spavento, sottomissione) e 8 emozioni che derivano dall’associazione di coppie di emozioni primarie. È del 1992 il lavoro di Paul Ekman in cui si individuano 6 emozioni di base (gioia, sofferenza, rabbia, paura, sorpresa, disgusto). Nel 2004 Evans definisce le “reazioni emotive di base”: paura, collera, dolore, gioia.
Personalmente opto per Ekman.
Insomma, l’emozione è innanzitutto del corpo, parte da una “scossa” fisica e solo successivamente viene interpretata sulla base di ricordi, situazioni contingenti, stati d’animo ecc. L’emozione ha una componente fisiologica ma anche corporea e facciale (Leone Augusto Rosa in “Espressione e mimica” divide il viso in 8 parti simmetriche, disposte 4 a 4 e indica un grado zero le cui deviazioni corrispondono all’espressione degli “affetti fondamentali”).
Utilissimo per capire questo mondo e avere dei solidi strumenti per interpretare (e per agire) il contributo di Dario Ianes “Educare all’affettività” che schematizza il quadro emotivo:
  • Stimoli scatenanti
  • Emozioni di base (sono a livello fisiologico e spesso “travolgono”)
  • Stati d’animo (modalità affettive stabili, durature, complesse. Sono gli umori generali come l’essere di indole allegra, scontrosa, ottimista, pessimista ecc.)
  • Sentimenti e passioni (valori, motivazioni, desideri, sogni, speranze)
  • Atteggiamenti grovigli di opinioni, stereotipi, pregiudizi, una sorta di occhiali – a loro modo deformanti - con cui guardare il mondo)
  • Opinioni (livello più teorico che reale che comprende opinioni e giudizi formulati almeno apparentemente per via razionale)
Si va a delineare quindi il campo dell’educazione emotiva, un campo vasto e complesso che ci chiama in gioco. Si tratta di un gioco che non può vederci spettatori, esserci è troppo importante per i nostri bimbi e per noi: l’intelligenza emotiva è “la capacità di conoscere le emozioni, di orientarle, di interagire con altri in modi efficaci. Non è soltanto una questione di temperamento ma anche di apprendimento. Un bambino impulsivo con buona capacità emotiva riesce a controllarsi meglio di quanto non riesca un bambino altrettanto impulsivo ma con un basso livello di competenza emotiva. Un bambino timido con un buon livello di comprensione emotiva impara strategie che lo rendono man mano più sicuro nei rapporti con gli altri. Chi non sviluppa l’intelligenza emotiva rischia di confondere le proprie emozioni con quelle degli altri, di pretendere l’impossibile, di avere scarsa tolleranza alle frustrazioni,  di offendersi per un nonnulla […] Una scarsa alfabetizzazione emotiva rende anche più difficile tollerare i segni del disagio negli altri e favorisce la tendenza a fuggire di fronte alla manifestazione delle emozioni altrui” (A. Oliverio Ferraris).
È necessario fornire ai bambini gli strumenti per cogliere e gestire emozioni, stati d’animo e sentimenti. Un primo passo può essere riconoscere in noi stessi il ruolo che hanno emozioni come la rabbia. Mi sono spesso trovato a rendermi conto che con Samuele in macchina non posso mandare a quel paese gli automobilisti che (faccio un esempio) svoltano senza metter la freccia. Cosa sto comunicando a mio figlio in quel momento? A posteriori mi vergogno di me ma lì sono preda di un’emozione, di pensieri “tossici” e mi trovo a esser convinto che tutti dovrebbero guidare esattamente come guido io e allora sì che le strade sarebbero dei bei luoghi… Questi pensieri sono ciò che Mario Di Pietro chiama “doverizzazioni” e sono errati. Al volante pensieri, pregiudizi ed emozioni si danno man forte e troppo spesso io non li governo. Sono vittima di una spirale che si autogiustifica. Ecco, se io imparo a riconoscere questa deriva, a controllarla e a non esserne vittima, allora ho acquisito un bel po’ di intelligenza emotiva.
L’esempio della guida è fortemente paradigmatico: magari al mattino si è in ritardo e questo ci agita, il comportamento degli altri al volante lo prendiamo come un affronto personale, i ragionamenti che facciamo paiono darci l’ok all’incazzatura, alla fine perdiamo il controllo e scarichiamo la rabbia sul primo malcapitato mandandolo affanculo.
Se io riconosco nelle persone che mi circondano segnali emotivi, indizi o pensieri “tossici” (“non me ne va mai bene una”, “non valgo nulla”, “non tollero che”, “è terribile”…) e se provo ad avvicinarmi, allora ho fatto ancora un passo.
Se scorgo i segnali lessicali tipici dei pensieri tossici (“che cosa stupida ha fatto quello stupido lì!”) e tento di chiamare le cose con il loro nome, allora ho fatto ancora un passo.
Se mi avvicino a mio figlio e tento di comprendere il suo stato d’animo, aiutandolo a dargli un nome, allora lo aiuto ad accrescere la sua solidità emotiva.Questa solidità lo aiuta a fidarsi dei suoi sentimenti, a gestirli e a riconoscerli negli altri.Sempre Ianes viene in aiuto con uno schema d’azione:
  • Osservare, osservare, osservare i segni affettivi
  • Allearsi con il vissuto affettivo, dare ascolto empatico
  • Dare un nome ai vissuti emotivi (anche per questo il dilungarsi su cosa siano le emozioni gli stsi d’animo ecc.)
  • Elaborare strategie d’azione

Le esperienze che ha fatto al nido sono state straordinariamente utili per Samuele. In casa non sempre c’è spazio e modo di far casino con la farina, l’acqua o lo zucchero. Al nido sì. A casa non c’è la possibilità di avere un’area per le attività psicomotorie che al nido lo hanno introdotto alle gioie del movimento libero e all’espressione di tutto ciò che il suo corpo porta con sé. Esperienze, non regole. Esperienze straordinarie anche perché fatte in gruppo: “l’intelligenza sociale è fondamentale per la vita di relazione. Essa comprende un insieme di abilità come: la capacità di capire le persone, tenere separati i propri sentimenti, desideri o aspirazioni da quelli degli altri, comprendere situazioni diverse, sapersi destreggiare in contesti sociali difformi, imparare le regole della vita di gruppo cogliendone pregi e limiti, sviluppare relazioni, scambi comunicativi e strategie di interazione efficaci e differenziate. Queste abilità si sviluppano attraverso l’esercizio attivo” (A. Oliverio Ferraris).
Vedere ciò che fanno le maestre mi migliora anche come genitore. Se invece di chiudermi e pensare che “io sono il padre e non sbaglio mai”, guardo con umiltà quella che è un’alterità (il modo di educare delle maestre) e cerco di rivedere i miei modi in senso critico, allora ho fatto ancora un passo.
Ieri sera dopo cena abbiamo guardato le foto che le fantastiche maestre del nido hanno raccolto in questi due anni di frequenza. Samuele letteralmente non si teneva dall’emozione e saltava scomposto, batteva le mani, rotolava e tamburellava con forza sulle gambe di mamma Paola. Se invece di capire la sua emozione avessi guardato solo il fatto che quel comportamento era un oggettivo disturbo, cosa avrei fatto alla sensibilità emotiva di mio figlio?
Ecco, sono argomenti complessi ma a volte basta poco per fare la cosa giusta, basta lasciarsi andare e farsi contagiare dalle emozioni. È utile e bello.

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