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Tratto da un racconto breve di Jonathan Raymond, scrittore che vive a Portland, Oregon, luogo in cui è ambientata la vicenda stessa, precisamente nelle terme naturali Bagby Hot Springs, al secondo lungometraggio di Kelly Reichardt va stretta tale dicitura vista la durata che non arriva nemmeno all’ora e un quarto, per questo la regista nata in Florida decide di compattare nei primi minuti quelle informazioni necessarie, quel background personale finanche sociale dei due personaggi.
Così vediamo una bella casetta americana (ma, come mostra la primissima inquadratura, con delle formiche che brulicano nell’erba) abitata da marito, Mark, e moglie, incinta.
La situazione è dunque questa: un uomo perbene vicino ad un passo importante come diventare padre che vive serenamente (perché, però, quelle meditazioni?) la vicina paternità.
Dall’altro lato abbiamo uno spirito libero, lo si vede nell’abbigliamento, nella barba incolta, che pare essere stato lontano dalla cittadina per un po’ di tempo. Nella reunion mostrata all’interno dell’automobile si parla dei cambiamenti accaduti durante l’assenza di Kurt, poi sulle corde malinconiche di una chitarra la città sfuma ed è solo natura.
Se l’inoltrarsi nel bosco come metafora di un cammino interiore, e quindi la selva, la foresta, le piante, l’acqua e il fuoco visti come lettino psicoanalitico non è il massimo dell’originalità (chissà se la Reichardt ha mai visto Blissfully Yours, 2002), Old Joy (2006) si costruisce da sé una certa aspettativa pur girando al minimo e pur avendo una cronologia dei fatti prossima allo zero assoluto.
Sorprende positivamente l’atmosfera intima che si genera a cospetto di un plot risicatissimo con solo due momenti in cui rivela allo spettatore il nucleo personale del film, ovvero i monologhi di Kurt in cui si intravede, anzi si intrasente, una leggera sofferenza che ha possibili scioglimenti, come la paura di perdere un amico prossimo a diventare padre, o lo scoramento nel vedere un uomo allacciato invisibilmente alla sua condizione di (quasi) papà, di marito, di cittadino, di americano (alla radio ascolta solo programmi che parlano di politica), insomma, un uomo che non è libero, e così gli occhi di Mark, durante il racconto di Kurt appoggiato a quella ringhiera che sembra una croce, si fanno brillanti, lucenti, svincolati dal peso della società.
O forse i due amici rappresentano soltanto due facce della medaglia consunta dell’umanità, ligia al proprio dovere ma che ha, e deve avere dentro di sé, quella gioia di andare, senza una meta, di emanciparsi dalle imposizioni, dai cellulari, dalle strade asfaltate.
In una parola, di viaggiare.
Confidenza su pellicola, cinema capace di esporsi senza sproloqui, minimale, delicato esempio di settima arte che al posto di parlare, intelligentemente suggerisce.
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