Confini, limiti, linee e poligoni sono la materia prima per chiunque si occupi di sistemi informativi territoriali (GIS) e, più in generale, di geografia. Cosa succede però quando i confini, spesso solo amministrativi e politici, si scontrano con la realtà dei processi ecologici? Questa domanda sintetizza una delle principali sfide che deve affrontare chiunque si occupi di conservazione della natura.
All’origine di ogni area protetta vi è sempre un processo decisionale che riguarda la definizione dei suoi confini e, seppur il più accurato possibile, questo procedimento porterà inevitabilmente a porre qualche risorsa ecologica a cavallo tra due condizioni: protetta all’interno del parco e sottoposta alle influenze antropiche all’esterno. Per fare un esempio pensiamo ai fiumi, e più in particolare al fiume Yellowstone lo scorso Luglio: cosa sarebbe successo se la fuoriuscita di petrolio dall’oleodotto della Exxon Mobil fosse avvenuta a monte anziché a valle del fiume? Una sciagura per le risorse del primo parco nazionale della storia.
Greater Yellowstone Ecosystem
Pensare ad una scala più ampia è quindi la chiave per una maggior tutela degli ecosistemi, protetti grazie all’istituzione di parchi naturali e riserve ma inevitabilmente in contatto con ciò che accade all’esterno. Buffer zones e corridoi ecologici sono forse la principale risposta a questa problematica, le prime sono in poche parole delle zone “cuscinetto” sottoposte ad un grado di tutela inferiore ma che garantisce un passaggio graduale da uno tipo di gestione del territorio ad un altro; i secondi invece sono delle vere e proprie aree protette istituite con l’obiettivo di connettere tra loro altre riserve già esistenti, in modo tale da contrastare il fenomeno della frammentazione degli ambienti naturali, principale minaccia agli ecosistemi soprattutto nelle zone altamente urbanizzate.
L’urbanizzazione non è certo un problema nei dintorni del Parco di Yellowstone, dove la maggior parte del territorio è posseduto dallo Stato sotto forma di parchi e National Forests e dove lo sviluppo degli insediamenti è decisamente di tipo rurale, caratterizzato quindi da un impatto sulla natura limitato. Anche qui tuttavia la gestione delle risorse del parco si scontra spesso con le dinamiche esterne, basti pensare ad esempio ai problemi che sorgono durante la lunga stagione invernale, quando molti bufali e cervi si spostano nella relativamente calda Paradise Valley, a nord ovest del parco, dove non sono protetti ed entrano in contatto con il bestiame degli allevamenti. La risposta del National Park Service, l’organismo statale che gestisce tutti Parchi e le Riserve nazionali degli Stati Uniti si chiama NPScape, un progetto volto a fornire dati e informazioni riguardanti le dinamiche che si verificano alla scala del paesaggio, inteso come insieme di fenomeni naturali e antropici. Grazie a questo progetto ogni parco ha a disposizione un set di dati, mappe e informazioni che riguardano ad esempio l’uso del suolo, l’impatto delle vie di comunicazione o la copertura vegetazionale, per un’area più ampia rispetto ai suoi confini in modo da includere anche habitat chiave situati al di fuori del parco. Due sono i principali effetti positivi che questo progetto spera di stimolare: il primo è una migliore gestione delle risorse all’interno dei parchi, alla luce di una maggiore conoscenza di ciò che accade all’esterno, il secondo è la sensibilizzazione degli amministratori locali ad una gestione del territorio maggiormente integrata con quella attuata all’interno dei parchi.
NPScape è quindi uno dei tanti esempi di come si possa “fare Ambiente” imparando a conoscere meglio il paesaggio, non certo sinonimo di panorama ma frutto complesso dell’interazione tra società e ambiente.
Autore: Margherita Cisani