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Oltre lo scrittore l'uomo. Ritratto di Ernest Hemingway.
Creato il 09 aprile 2013 da Saradurantini @SaraDurantiniPochi sono gli uomini che riescono a rendere musicali le parole. Hemingway è uno di questi. Unico per come è riuscito a farlo. Qualche settimana fa, parlando di Francis Scott Fitzgerald, accennavo ai suoi dialoghi "levigati e bruschi al tempo stesso", alla "semplicità delle sue parole", a "come chiamava le cose, non come le descriveva". Rileggendo queste frasi noto che manca qualcosa e che, nel contempo, c'è molto più di ciò che avrei voluto realmente dire. Mi spiego.
Non si può partire dai libri di Hemingway se non si conosce l'uomo che li ha scritti. Badate bene, ho detto l'uomo e non lo scrittore. E' troppo facile nascondere la verità dietro alle etichette. Dietro alla semplicità di Hemingway si celava il il dolore di una vita tragica, una sensibilità sradicata, assediata dai dubbi, dalle indecisioni, dai tormenti. Le manifestazioni baldanzose si contrapponevano a una ritrosia quasi infantile nei confronti di chi gli stava accanto, la spavalderia e l'abuso di alcool altro non erano che l'espressione di uno che "voleva vincere la morte" (Fernanda Pivano, Album americano, Frassinelli).
Nelle mie parole quindi mancava l'uomo mentre era presente solo lo scrittore. I libri di Hemingway affondano le radici nella sua stessa esistenza; non credo quindi di esagerare affermando che siamo di fronte a romanzi fortemente autobiografici. Basterebbe pensare, come ha ricordato tempo fa Arthur Phillips, alla lettera indirizzata alla madre nel luglio del 1924, in cui parlava della corrida di Pamplona. Eppure Phillips getta un'ombra su Hemingway, sul suo essere uomo prima ancora che scrittore, affermando che l'attenzione all'uomo ha, in un qualche modo, indebolito la forza della sua narrativa. Non credo che ciò corrisponda al vero o almeno non in quest'ottica. La critica, rubando nuovamente le parole a Fernanda Pivano (la quale oltre a dare un forte apporto critico alla letteratura americana ha anche avuto il piacere di conoscere e instaurare un'amicizia con Hemingway), deve spiegare gli autori e non analizzarli esteticamente alla maniera crociana. E se per un attimo Phillips sembra avvicinarsi a un modo di spiegare gli autori tanto caro alla letteratura italiana realizzata da Croce, addentrandosi nell'articolo sembra orientare il lettore su ciò che realmente voleva dire ovvero riscoprire l'uomo che c'è dietro allo scrittore partendo dalle lettere e da quella produzione che non è mai stata pensata, fino ai giorni nostri, alla pubblicazione. Oppure partendo dalle biografie scritte da coloro che lo hanno conosciuto per come era, non per quello che scriveva.
Questo apre uno squarcio nelle mie parole. Come dicevo poc'anzi, se da un lato non ho tenuto conto dell'uomo ma solo dello scrittore dall'altro è proprio la volontà di raccontarlo che ha spostato la mia attenzione sugli elementi estetici della sua narrativa. In altre parole, ho offuscato il dolore che traspare dalle sue pagine alternandosi a una vivacità spezzata dalla folta e irriducibile depressione stagliata su un presente potente dove il manierismo di una storia americana controversa ritorna, scatti fotografici e respiri mozzati, nei suoi romanzi con ridondanza lirica e forza poetica straordinarie, la base del linguaggio letterario americano.
Il successo lo porta a soppesare le amicizie, a rivedere la sua stessa persona, forse a non riconoscersi. Tende a perdersi quando passa dalla terza alla prima persona. Paul Hendrickson nel saggio Hemingway's Boat: Everything He Loved in Life, and Lost, 1934-1961 ne fa un ritratto lucido; la limpidezza delle sue parole ricostruisce la vita di uno scrittore incompreso, le cui vicende personali sono spesso state strumentalizzate e mal interpretate dai giornali, fagocitate in quel mare di illazioni e fraintendimenti che tendono, col tempo, a scarnificare non solo la vita di una persona ma anche i suoi ideali.
E nonostante ciò Hemingway non ha mai pensato a reagire ai pregiudizi nei suoi confronti e in questo è da ravvisare la purezza e la rabbia di una scrittura anticonformista, lacerata da un dolore decadente, come una frattura che precede i suoi stessi romanzi.
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