Il caso Telecom Italia è in queste ore balzato all’onore delle cronache, ricordando all’opinione pubblica come il nostro paese stia drammaticamente perdendo i suoi cespiti più importanti. L’informazione moderna è frenetica e la memoria del pubblico corta: probabilmente la notizia, e il dibattito attorno ad essa, saranno già dimenticati nel giro d’un paio di giorni. Lo dimostra il fatto che il clamore suscitato oggi dal passaggio della compagnia telefonica nazionale in mani spagnole sia in realtà ingiustificato, trattandosi solo dell’ultimo episodio d’un processo di privatizzazione, parcellizzazione e vendita all’estero dei cespiti italiani che prosegue da oltre un ventennio. Processo che va di pari passo con la collocazione del debito pubblico all’estero, l’incremento della pressione fiscale per pagare i sempre più onerosi interessi, la cessione della politica monetaria a un’entità esterna, la rinuncia ad un ruolo statale nell’economia, ed altro ancora. Tutti fenomeni interrelati tra loro, che rispondono ad una carenza strategica dell’Italia e hanno il loro esito nella retrocessione del paese a un ruolo completamento subalterno. Ma andiamo per ordine.
Nel 1963 la nazionalizzazione del comparto elettrico, varata da Amintore Fanfani, conferì il monopolio nel settore all’ENEL. La SIP, una società elettrica rilevata negli anni ’30 dall’IRI e che fin dagli anni ’20 aveva investito nel settore telefonico, sfruttò le entrate derivanti dalla vendita dei cespiti all’ENEL per dedicarsi interamente a quest’ultimo settore, in cui già era da alcuni anni monopolista di fatto controllando tutti gli operatori. La storia della SIP è di successo, d’un operatore all’avanguardia mondiale. Ad esempio, è italiana l’introduzione della prima scheda telefonica al mondo (1976), una tecnologia protagonista per alcuni decenni della telefonia nonché antesignana della scheda ricaricabile. Anche questa seconda tecnologia, decisiva per lo sviluppo della telefonia mobile, fu un’invenzione italiana: la prima scheda ricaricabile al mondo fu emessa dalla TIM, nel 1996. Nel 1973 la SIP creò invece RTMI, la prima rete italiana radiomobile integrata nel sistema telefonico nazionale: è lo stesso anno in cui negli USA la Motorola lanciava il primo telefono mobile. Nel 1979 l’azienda statale italiana pose i primi 16 km di fibra ottica a Roma: si tenga presente che tale tecnologia era stata applicata per la prima volta negli USA solo due anni prima. All’inizio degli anni ’90 la SIP era l’azienda europea col maggior numero d’abbonati al servizio radiomobile. La STET, la società tramite cui l’IRI controllava la SIP, aveva più di 135.000 dipendenti e un fatturato di quasi 14.500 miliardi di lire. Tra le controllate di STET erano anche imprese strategiche come Selenia (produzione di radar, avionica, elettronica di bordo, sistemi missilistici) e Sistel (sistemi missilistici).
Nel 1985 cominciò il processo di privatizzazione, con la quota STET in SIP che decrebbe dall’82% al 54%. Nel 1994 dalla fusione di SIP con altre società controllate dalla STET nacque Telecom Italia, che nel 1997 si fuse con la STET stessa mantenendo il proprio nome. Nel 1995 fu invece scorporata TIM (che Telecom Italia avrebbe riacquistato nel 2005, aggravando il proprio indebitamento); SEAT fu invece scorporata e privatizzata a vantaggio d’una cordata guidata da De Agostini. Nel 1997, sotto il governo Prodi e con Guido Rossi a capo della società, il Tesoro cedette quasi tutte le sue azioni (il 35,26% del capitale) ricavando 26.000 miliardi di lire. Quasi 13 miliardi e mezzo di euro, allora decisivi per l’ingresso dell’Italia nell’Euro, ma ben poca cosa di fronte a un debito pubblico che oggi ha superato i 2000 miliardi di euro. All’epoca fallì il progetto di conferire il controllo di Telecom Italia a un “nocciolo duro” costruito attorno agli Agnelli e cominciarono le scalate: prima quella della cordata guidata da Roberto Colaninno e riunita nella società Hopa (1999), poi quella della Olimpia di Marco Tronchetti Provera (2001), infine quella della Telco composta da banche italiane e dalla società spagnolo Telefonica (2007).
L’OPA lanciata dalla cordata guidata dal Colaninno nel 1999 ebbe dimensioni imponenti: un affare da 100.000 miliardi di lire, il più grande (ancora oggi) nel suo genere in Italia e tra i maggiori al mondo. Eppure, tanto Colaninno quanto i suoi soci misero direttamente sul piatto poco denaro, facendosi invece forti del credito ottenuto da varie banche, con in testa la statunitense Chase Manhattan che garantì da sola metà dell’importo. Anche quello della Olimpia fu un acquisto a debito, e questa particolare modalità di scalata si è ripercossa sullo stato di salute della Telecom Italia. Sebbene i protagonisti abbiano sempre respinto l’accusa di aver scaricato sulla società i debiti maturati per acquistarla, è un fatto che dalla privatizzazione a oggi la Telecom abbia sostanzialmente bloccato gl’investimenti sulla rete, dimezzato i dipendenti (da 120.000 a 55.000), ceduto il proprio patrimonio immobiliare (con ingenti ricavi ma acquisendo l’onere d’affitti che ogni anno costano alla società varie centinaia di milioni di euro), passato di mano investimenti e controllate (Italtel, Digitel, Tim Hellas, Alice France e altre ancora). Malgrado questo ingente piano di dismissioni e ridimensionamento, il debito della società è esploso, dagli 8,1 miliardi di euro del 1998 ai 36 miliardi di euro di oggi. Ma, mentre la Telecom Italia accumulava questi ulteriori 28 miliardi di debiti, la società ha continuato a distribuire generosi dividendi ai suoi azionisti: ben più di 20 miliardi di euro.
Oggi politica e opinione pubblica fanno mostra d’indignazione per l’acquisizione della Telecom Italia da parte di Telefonica. La società spagnola con un investimento di poco più di 800 milioni di euro acquisisce il controllo di una che sul mercato vale 11 miliardi; i giornali hanno poi ben descritto come Telefonica, già indebitata di suo (54 miliardi di euro di debito netto), difficilmente investirà sulla rete italiana, ma anzi il suo principale interesse è sbarazzarsi della concorrenza che le sussidiarie Telecom Italia in Sudamerica fanno alla compagnia spagnola. Eppure, il disastro della Telecom Italia – da multinazionale dello Stato italiano all’avanguardia nel mondo a indebitato carrozzone svenduto a una compagnia straniera – si è consumato, lentamente e inesorabilmente, nel giro di un quarto di secolo, ed epitoma una sorte simile toccata a tante altre eccellenze italiane coinvolte nel processo di privatizzazione – un mantra che, sempre per un quarto di secolo e più, è stato ripetuto e presentato come taumaturgico dalla politica e dell’intellighenzia italiana. Alitalia e Cirio sono esempi di compagnie che, dopo l’uscita dall’IRI, non hanno certo brillato. Finmeccanica, rimasta in mano pubblica, ha mantenuto e consolidato il suo ruolo nel mercato globale, ma oggi è nel mirino della prossima tornata di privatizzazioni.
Il passaggio in mano straniera di determinate compagnie non è una questione di prestigio nazionale. Pecunia non olet. Il problema è altresì strategico e di tenuta del sistema Italia. La rete telefonica (ivi inclusa Internet) del nostro paese è passata in mano spagnola. Il sistema agroalimentare italiano è stato in larga parte acquisito dai francesi. Nell’informatica sono lontani i tempi in cui la Olivetti gareggiava con i marchi statunitensi nell’introduzione dei primi PC. L’industria degli armamenti, economicamente ancora sana, a causa della pressione della politica e di quella dell’opinione pubblica dopo il disvelamento d’alcuni scandali di corruzione, ha avviato la cessione di cespiti all’estero. L’Italia sta perdendo non solo il controllo di elementi strategici della sua economia e capacità produttiva, ma il processo di privatizzazione – a prescindere che sia avvenuto a vantaggio di compagnie stranieri o di “capitani coraggiosi” di casa nostra – si è accompagnato generalmente al radicale calo degl’investimenti nell’ammodernamento delle strutture e nella ricerca scientifica, nonché alla delocalizzazione d’impianti e produzioni all’estero. Vi è inoltre il problema fiscale: l’acquisizione da parte di grosse multinazionali favorisce quei processi di elusione in virtù del quale corporation dai fatturati miliardari versano in tasse cifre irrisorie (vedi il caso Apple, capace di pagare nel 2011 dieci milioni di tasse pur avendo entrate da 22 miliardi).
La perdita di controllo su strutture strategiche, il calo dell’occupazione, l’uscita da settori ad alta tecnologia (la progressiva sparizione della grande industria in Italia è all’origine di quell’incapacità del sistema d’assorbire i laureati italiani, con conseguente “fuga dei cervelli” istruiti a caro prezzo), sono problemi che l’Italia patisce non da oggi, ma da decenni, e che sono indipendenti dalla nazionalità dell’acquirente del cespite privatizzato. Gioielli dell’industria italiana, oggi finiti in mano straniera o in procinto di farlo, vi sono giunti dopo che il capitalismo nazionale li ha demoliti con una gestione poco lungimirante, e certo incosciente, mirante solo a massimizzare i profitti a breve termine. Uno Stato debole e guidato da funzionari poco coscienziosi, che si sono fatti scudo strumentalmente del tema del debito pubblico (le privatizzazioni hanno inciso e incideranno minimamente a vantaggio delle casse statali), ha svenduto beni così faticosamente creati e accumulati dall’Italia in sforzi pluridecennali. Inutile oggi stracciarsi le vesti perché Telecom Italia diventa spagnola, e il giorno dopo svendere ENI o Finmeccanica. Inutile anche recuperare la rete per decreto – e un nuovo sacrificio finanziario, dal momento che non si può espropriarla senza indennizzo – salvo poi perseverare nel non investirvi per ammodernarla, cosa più che probabile visto che nessuno più in Italia, né lo Stato né le banche né gl’industriali, hanno i soldi necessari e la volontà di spenderli.
Il problema è a monte. È in un’adesione ideologica e dottrinaria al neoliberalismo, coi suoi mantra del laissez-faire, della non ingerenza dello Stato nell’economia, del privatizzare, del lasciar fare al mercato. È nell’assenza di una pianificazione strategica da parte dello Stato e di una riflessione strategica da parte della società civile. È nell’incapacità della società italiana di mantenere una coesione morale e un minimo di patriottismo necessari a salvarla dagli ovvi assalti di competitori stranieri giustamente decisi a massimizzare i propri profitti. Sono questi gl’ingredienti della crisi del nostro paese, ch’è non solo la crisi del debito che l’attanaglia ormai da alcuni anni, ma è una più generale retrocessione dell’Italia dal suo rango di paese tra i più avanzati al mondo. Senza affrontare questi macro-problemi il declino proseguirà inarrestabile. E Telecom Italia che passa a Telefonica, nel libro di questo declino, è paragonabile a non più di un breve paragrafo.