di Aldo Vitale*
*ricercatore in filosofia e storia del diritto
Se si trattasse di chimica o fisica delle particelle, si potrebbe utilizzare il termine di spin (che nel gergo scientifico esprime il momento angolare intrinseco delle particelle, o detto in maniera più grossolana, la spinta che evidenzia la rotazione, per esempio, dell’elettrone) per indicare le spinte contrarie, o meglio opposte, a cui è soggetta l’istituzione familiare. Da un lato, infatti, vi sono le tendenze antigiuridiste che premono affinché la famiglia si de-istituzionalizzi, attraverso, per esempio, la diffusione del cosiddetto “fast-divorce” o la proliferazione delle convivenze more uxorio; dall’altro lato le energie, che potrebbero essere definite socio-pluraliste (poiché tese a rivendicare nuove posizioni giuridiche in nome di un pluralismo morale espresso dai cambiamenti sociali), che invece avanzano con sempre crescente insistenza la richiesta di riconoscimento e tutela giuridica di situazioni che normalmente dovrebbero essere sottratte al diritto per natura (loro intrinseca e del diritto medesimo), come per esempio il matrimonio omosessuale o la omogenitorialità (cioè la genitorialità come diritto delle coppie omosessuali attraverso l’istituto dell’adozione o le tecniche di procreazione medicalmente assistita).
Si delinea insomma un mutamento della piattaforma teoretica del diritto: si assiste al passaggio in cui il diritto riconosce la famiglia come qualcosa che gli pre-esiste limitandosi a disciplinare in primo luogo i suoi aspetti patrimoniali ed in secondo luogo quelli relazionali, ma ricalcando le linee poste dalla natura, alla famiglia ingegneristicamente progettata, modellata e costruita dal diritto (sia nella sua epifania legislativa che in quella giurisprudenziale) secondo lo schema predefinito per cui non esistono schemi predefiniti. L’istituto familiare si ritrova, in sostanza, schiacciato tra forze di valenza opposta: la degiuridificazione da un lato e la iper-giuridificazione dall’altro. In quest’ottica si muovono da un lato il disegno di legge sul divorzio breve presentato in Parlamento e la sentenza della Cassazione n. 4184/2012 dello scorso 12 marzo in cui si sancisce, pur rigettando il ricorso ed in assenza di una espressa normativa in tal senso, l’esistenza di un diritto alla vita familiare per le persone del medesimo sesso. Tralasciando tutte le questioni sociologiche, statistiche, psicologiche, esistenziali che ruotano attorno alla questione della omosessualità e quelle più tecnicamente giuridiche del caso affrontato dalla Cassazione (riguardando il problema della trascrizione nei registri di stato civile italiani del matrimonio contratto all’estero tra persone dello stesso sesso), occorre sgombrare la mente da ogni preconcetto ideologico per far spazio al problema bio-giuridico rappresentato dalla possibilità di riconoscere un diritto alla vita familiare per le coppie omosessuali.
La Corte di Cassazione richiamandosi alla pronuncia della CEDU del giugno 2010 nel caso Schalk e Kopf c. Austria, ritiene che è oramai assodato il superamento del concetto tradizionale di famiglia e che sebbene sia rimessa alla libertà (sovranità) legislativa dei singoli Stati la possibilità di disciplinare le forme familiari diverse da quelle tradizionali, non si può fare a meno di riscontrare l’esigenza di una tutela (che per il momento è di natura giurisprudenziale, almeno in Italia) dell’interesse alla vita familiare delle coppie dello stesso sesso. La Cassazione si richiama anche alla sentenza n. 138/2010 della Corte Costituzionale con cui il giudice costituzionale rigetta la richiesta di riconoscimento giuridico e formale per via giurisprudenziale delle coppie omosessuali poiché un eventuale accoglimento altro non sarebbe che una intromissione della giurisdizione in ambiti riservati al legislatore, ma pur tuttavia riconoscendo che le coppie dello stesso sesso sono comunque portatrici di interessi e di pretese degne di essere disciplinate e garantite. Occorre rilevare che tutte le suddette pronunce sembrano afflitte da una miopia di fondo, poiché tutte incentrate sull’idea che il modello familiare sia inevitabilmente mutato, pur senza mai addivenire ad una definizione della famiglia. Ciò che più sorprende è soprattutto la posizione dei giudici italiani aditi, posto che l’art. 29 della Costituzione, in questo senso, sembra sufficientemente chiaro allorquando dichiara che «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio».
Dalla norma costituzionale anzidetta si evincono infatti alcune conclusioni irrefutabili: 1) con il verbo “riconoscere” il costituente ha inteso sottolineare che vi sono delle dimensioni della realtà e del giuridico che pre-esistono all’ordinamento non in quanto meta-normative, ma in quanto la loro normatività è meta-statuale e lo Stato non può che limitarsi ad accogliere ciò che lo precede; del resto in questo senso Aristotele nella sua “Politica” ben spiega che lo Stato ( la polis ) non si può costituire senza la famiglia; 2) la famiglia è una società naturale, nel doppio senso di unione tra uomo e donna come previsto dalla natura, e nel senso che essa attiene all’ambito del diritto naturale, cioè quel diritto che in quanto tale non può essere soppresso o escluso dal diritto positivo, cioè dalla volontà legislativa dello Stato; 3) la famiglia è tale in quanto fondata sul matrimonio, cioè su una disciplina giuridica che ne sancisca la fuoriuscita dal sentimentalismo del privato e ne cristallizzi la rilevanza pubblica e sociale. In ordine al terzo punto, occorre ammettere che le pretese di matrimonio avanzate dalle coppie dello stesso sesso si comprendono proprio alla luce di questa necessità di uscire dalla costruzione privata della coppia, per accedere alla dimensione pubblica della famiglia che come tale è fondante rispetto alla società, cioè alle relazioni tra consociati. Proprio la carica relazionale assurge ad elemento costitutivo della famiglia (come scriveva Aristotele, infatti, «la famiglia è la comunità che si costituisce per la vita», nel senso che è una società naturale in quanto in essa e soltanto in essa, prima d’ogni altra occasione, l’uomo scopre la propria natura relazionale, cioè il proprio essere – per utilizzare la nota e felice formula – un “animale sociale” ) tal che questo elemento intrinseco della natura della famiglia è così ineliminabile da essere avvertito anche dalle coppie omosessuali. Ma questo è proprio il cuore del problema.
Posto, infatti, che l’unione omosessuale è costitutivamente sterile, come ricorda il filosofo del diritto Prof. Francesco D’Agostino, essa non può essere considerata come una famiglia, in quanto l’elemento della relazionalità con l’apertura all’ordine delle generazioni è in essa precluso. Ciò non significa, ovviamente, che altrettanto valga per le coppie eterosessuali sterili, poiché in esse la sterilità è un elemento eventuale e patologico, mentre nelle unioni omosessuali è inevitabile e fisiologico. E’ questo un motivo fondato, tra i tanti, per cui si dubita fortemente che le unioni omosessuali possano godere del medesimo status familiare di quelle eterosessuali; ed è sostanzialmente per questo motivo che non può parlarsi di un loro matrimonio, essendo questo aperto alla procreazione. Come indica, infatti, l’analisi etimologica del termine medesimo matrimonio, dal latino matris munia, cioè doveri della madre, esso non può che contemplare la relazione tra l’ordine delle diverse generazioni, cioè il rapporto tra genitori e figli, ovvero tra coloro che generano e coloro che sono generati. In ciò per Hegel consiste la suprema e naturale eticità del matrimonio. Levi-Strauss insegna che la tradizione di alcune popolazioni aborigene australiane non consente di accogliere lo straniero all’interno della tribù finchè questi non sia riuscito a rispondere alla domanda degli anziani: «Chi è il tuo maeli ( padre del padre )?». Levi-Strauss chiarisce che si discute così di questioni genealogiche fino a quando tutti gli interessati non si dichiarano soddisfatti sulla esatta determinazione della relazione dello straniero con ciascuno degli indigeni: da ciò si evince l’importanza della discendenza, del padre del padre, che è inevitabilmente preclusa nella relazione omosessuale, distinguendola così nettamente dalla famiglia.
E proprio perché alle unioni omosessuali tutto ciò è intrinsecamente precluso si è verificato in Inghilterra il caso riportato da tutti i principali quotidiani nazionali ed esteri per cui una Corte d’Appello londinese ha dichiarato che per un bambino è un bene maggiore avere tre genitori, seppur tutti omosessuali, piuttosto che solo due madri omosessuali. Il fatto in breve: due donne omosessuali per sancire la propria unione e soddisfare il proprio bisogno di maternità chiesero ad un proprio conoscente, anch’egli omosessuale, di donare il suo seme per procedere alle tecniche di procreazione medicalmente assistita (eterologa); dopo qualche tempo il padre biologico cominciò a voler vedere riconosciuti i propri diritti di padre adendo il giudice per la protezione della propria posizione. Alla fine la Corte d’Appello ha emesso il suddetto verdetto ammettendo che un bambino possa avere tre genitori, di cui due madri ed un padre e pur tutti omosessuali. Tralasciando le evidenti problematiche connesse alla procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo, tralasciando il fatto per cui un bambino possa avere tre genitori (o anche più), tralasciando i problemi dell’identità genetica, tralasciando lo sviluppo degli equilibri psichici di un bambino che cresca con due madri ed un padre, tralasciando il paradosso per cui i bambini dei divorziati spesso finiscono per non avere neanche un genitore, diversamente dai figli della provetta che ne possono avere più di due ( si dovrebbe cominciare a parlare di redistribuzione dell’amore genitoriale come per decenni si è parlato di redistribuzione della ricchezza? ), occorre ribadire che la sentenza londinese è paradossale per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo: perché si considera alla base della famiglia non più una coppia, ma anche un gruppo; a questo punto verrebbe da chiedersi perché non si debbano legalizzare in Europa la poligamia, la poliandria, o, per seguire le tesi di Jacques Attalì, il “poliamore”, cioè in sostanza il matrimonio di gruppo tra più persone di sesso diverso o uguale. In secondo luogo: che il giudice abbia riconosciuto i diritti del padre biologico costituisce non solo una ulteriore prova della sterilità costitutiva del rapporto omosessuale (poiché né l’uomo, né le due donne avrebbero potuto diventare genitori senza l’unione reciproca dei propri gameti), ma dimostra che per fondare una famiglia, cioè una società naturale aperta alla relazionalità ed all’ordine delle generazioni, non può che esservi l’unione tra un uomo ed una donna; in altri termini, solo così può davvero parlarsi di famiglia.
Tutto ciò non significa che agli omosessuali non possano essere riconosciuti alcuni diritti che discendono dalla loro relazione (per esempio la reversibilità del contratto di locazione dell’immobile in cui si vive), significa soltanto che la loro unione, diversamente da quanto ritenuto senza una dovuta riflessione dalla recente sentenza della Cassazione e dalla CEDU, può essere tutelata già con gli strumenti giuridici esistenti, ma senza la possibilità di equiparazione alla “vita familiare”, come del resto aveva timidamente accennato la stessa Corte Costituzionale nell’ordinanza n. 4/2011 allorquando ebbe modo di precisare che «le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio». In conclusione, la sentenza londinese, pur con tutti i suoi difetti, sembra contraddire la sentenza della Cassazione italiana, circostanza che induce a riflettere non tanto e non solo sulla omogeneità degli ordinamenti giuridici nell’epoca dell’Unione Europea, ma soprattutto sulla condizione giuridica della famiglia stirata e compressa da ogni parte fino ad un suo più totale sfibramento, il quale è sempre il primo passo per la perdita di salute e tonicità della società medesima.