“Meglio di morire di fame che di tumore” così risponde una cittadina tarantina ad un giornalista di Repubblica a proposito della chiusura degli impianti dell'area a caldo dello stabilimento dell’Ilva di Taranto. L’industria rappresenta la maggiore risorsa economica della regione, con 11454 operai e 1386 impiegati è lo stabilimento siderurgico più grande in Europa. Da anni ormai l'Ilva è al centro di un vasto dibattito per il suo impatto ambientale e le sue emissioni sono state oggetto di diversi processi penali per inquinamento. Da quando il Gip Patrizia Todisco ha ordinato il sequestro degli impianti la questione è ritornata nell’agenda del governo e soprattutto all’attenzione dell’opinione pubblica a causa del rischio che corrono migliaia di operai di perdere il posto di lavoro.
Nel corso degli ultimi anni più fonti hanno dimostrato il pericolosissimo impatto ambientale sulla salute dei cittadini e sugli abitanti della città di Taranto, tra il 1998 e il 2010 sono state attribuite alle emissioni industriali: 386 decessi, 237 casi di tumori e 937 i casi di ricovero ospedaliero per malattie respiratorie. A Taranto si produce il 92% della diossina italiana e l'8,8% di quella europea, ognuno dei duecentomila abitanti, ogni anno, respira 2,7 tonnellate di ossido di carbonio e 57,7 tonnellate di anidride carbonica. Per ordine del sindaco i bambini non possono giocare nei giardini pubblici per il forte rischio di entrare in contatto con le polveri sottili. La vera tragedia della questione Ilva è che a protestare non sono i cittadini minacciati dal rischio ambientale ma i lavoratori che difendono l’industria anche a costo di veder minacciata la propria salute. Alla domanda se sia più importante il lavoro o l’ambiente e la salute gli operai rispondono che la priorità è “portare a casa il pane”.
Così si sta svolgendo il paradosso di un impianto industriale figlio di un’epoca in cui non c’era la cultura del rispetto dell’ambiente, della salute e del benessere del lavoratore. Dove lavorare per 8 ore di fila a temperature disumane era considerato normale, dove i “tempi della fabbrica” esistono ancora e paradossalmente vengono difesi dagli stessi lavoratori anche costo di lasciarci la pelle. Perché per questi uomini morire di lavoro è meglio che morire per la perdita del lavoro. Ma questa è anche la storia di migliaia di famiglie che grazie a quella stessa fabbrica hanno comprato una casa, possono pagare un mutuo e hanno mandato i figli all’università con la speranza di garantire loro un futuro migliore. Il lavoro, l’ambiente, la salute e la vita: quale di questi valori diventa allora il più importante? Siamo arrivati a dover scegliere tra priorità che anziché essere concorrenti dovrebbero coesistere in un sistema che funziona, dove si è costretti a scegliere tra la sopravvivenza del singolo rispetto al benessere della collettività e delle generazioni future, le generazioni figlie di quelli stessi operai che ora stanno protestando.
Mentre si cerca di schierarsi da una parte o dell’altra il ministro dell’ambiente Clini afferma che il governo si impegnerà a stanziare 336.668.320 di euro per interventi infrastrutturali di bonifica, incentivi alle imprese locali e riqualificazione industriale dell'area. Nel frattempo leggendo tra le carte dell’ordinanza di custodia cautelare scopriamo che i dati diffusi dall’Ilva sulle malattie prodotte dall’impianto in questi anni risultavano quattro volte inferiori a quelli rilevati dall’Inail, che quando la Guardia di Finanza riusciva a entrare nello stabilimento trovava “situazioni sconcertanti all’interno dei capannoni con polverosità ambientali insostenibili”, che addirittura si sospettano possibili complicità dei membri del Cnr incaricati delle verifiche. Continuando a leggere scopriamo che “tutti gli atti di intesa volti a migliorare le prestazioni ambientali dell’impianto sono la più grossolana presa in giro compiuta dai vertici dell’Ilva”. Per adesso questi signori sono agli arresti domiciliari accusati a vario titolo, di disastro ambientale colposo e doloso, avvelenamento di sostanze alimentari, omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, danneggiamento aggravato di beni pubblici, getto e sversamento di sostanze pericolose. E nel frattempo ci chiediamo: chi pagherà quei 336.668.320? Indovinate un po’!