Il bello della gioventù è che si può, in certi casi e fino a una certa misura, scoprire l’acqua calda senza cadere nel ridicolo. E l’ancora più bello è che a volte si tratta di un’acqua calda davvero diversa, anche se solo di quel tanto che basta a renderla distinguibile dall’altra solita.
La mia acqua calda, comune a tanti giovani della mia generazione, era fatta di fortuite scoperte in bancarella, scoperte che facendo di colpo balenare universi nuovi e insospettati indicavano nello stesso momento una missione.
La scoperta e la conseguente missione quella volta si presentarono sotto le spoglie di un’edizione economica dei “Poems of 1842” di Alfred Tennyson, di cui da noi si conoscevano alcuni testi, mentre gli altri secondo la nozione comune non valevano la pena di essere letti né tantomeno studiati. Con gesto formale sollevai il volume e pagate le poche lire del suo prezzo me lo portai a casa. Fino ad allora ero stato un semplice bacchettatore di traduttori e persino di autori, non esclusi i più grandi, che correggevo con note a margine solenni ma sporadiche. Quella volta invece non mi limitai: la situazione di quell’autore giunto con un ritardo forse incolmabile a ridosso di una generazione di grandissimi, cosa che lo costringeva a cambiar gioco per non soccombere, somigliava così tanto alla nostra, alla mia. Perciò mi misi a tradurre uno dopo l’altro parecchi poemetti di una certa lunghezza, lavorando di preferenza sulle panchine di un grande parco nel centro della città ma che sembrava remoto da tutto. Gli alberi secolari, i cespugli fioriti, i richiami degli uccelli e il ronzio degli insetti formavano la cornice ideale per quei mondi del mito e della leggenda che andavo traghettando dalla lingua di Tennyson alla mia. Dopo alcune settimane, quando mi ritrovai con un bel po’ di lavoro fatto, cominciai a far passare la voce, come si faceva allora, e come ancora oggi si fa, specialmente da parte dei giovani.
E quella voce, seppure con i tempi geologici della poesia, non rimase inascoltata: parecchi di quei testi finirono in una prestigiosa rivista, e una piccola compagnia di filodrammatici volle addirittura farne uno spettacolo cui non mancò neppure qualche spettatore, fra cui, in prima fila, gli ispettori della SIAE sempre in caccia. Ma il libro, il libro di carta, l’unica realizzazione che conti per chi sia nato a metà del secolo scorso e non abbia riflessi veloci, malgrado i più vari tentativi non venne.
Così (inseguendo altre farfalle, inseguito da altri calabroni) per moltissimo tempo lasciai perdere.
Ma di recente del mio antico Tennyson mi ricapitò sotto gli occhi “Enoch Arden”; e per il non più giovane, anzi per il quasi vecchio passato per certe trafile, le parole della protagonista, dette nei versi iniziali ai suoi compagni di giochi che presto sarebbero diventati rivali in amore: “Purché non litighiate fra di voi / io sarò la sposetta di ambedue”, al di là della lettera e dello spirito dell’originale, non potevano riuscire indifferenti. Volli leggere il resto, e leggendo sentivo crescermi dentro il solito ruggito, la sofferenza che prende forma pubblica di rabbia. Mi procurai le traduzioni ottocentesche, oggi improponibili e forse già improponibili ai tempi loro; trovai l’introvabile traduzione di Quirino Principe, realizzata come testo del melologo di Richard Strauss ispirato a questo lavoro; e il cimento riprese.
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