In “Viola di morte” c’è una figura di donna che, dall’interno della sua casa riscaldata dal fuoco del camino, fa a Landolfi, il quale si trova all’esterno, nel freddo invernale, un cenno enigmatico e inquietante, sul quale il poeta s’interroga inutilmente per anni per infine concludere: “Ora so, che son saggio, / Ora so, / Che mi dicevi di no”.
Non si tratta di luciferina negazione, bensì di un senso di acre esclusione da qualcosa che pure esiste, ma altrove e non per lui. Senso di esclusione al contempo lenito ed acuito dall’idoleggiamento di donne capaci di sostenere, declamando i poeti in lingua originale, le conversazioni più ardue mentre forse compiono (ma fuori quadro) i gesti più arditi, come pare avvenire in “Breve canzoniere”: e che schiaffo a quella generazione che intanto picconava i palazzi d’inverno della cultura per riapprodarvi, di lì a poco e in ordine sparso, onde prendervi i posti migliori in ciò che ne era rimasto.
Nel finale di “Breve canzoniere”, in effetti, i protagonisti, impegnati in quello che potrebbe non sembrare altro che un incontro/scontro d’amore, recitano in latino gli ultimi versi dell’Eneide, la morte di Turno. Perché proprio quell’episodio? Direi per due motivi: perché Landolfi sente di essere sul ripido crinale fra due mondi, giusto come quello simboleggiato dal duello fra Turno ed Enea; e poi perché quell’episodio ricomprende in sé tutte le situazioni in cui il valore individuale non conta di fronte al destino, che ha deciso i tempi e distribuito le parti in modo diverso. E l’idea di starsene chiusi, con una donna che condivide la nostra vecchia lingua, in una stanza dove la furia del mondo non giunge se non soffocata, a parzialissimo e dolceamaro ristoro di una sorte avversa, è l’espressione per antonomasia del punto in cui eros e decadenza si fondono, attuando un simbolico rovesciamento in cui tempo e sconfitta si mutano nei loro contrari.
Ad abundantiam: nel “Tradimento”, ultimo libro in ordine di stesura se non d’uscita, che si sostanzia in una risentita e severa meditazione sulla fine individuale e universale, si rileva un’epigrafe ancora tratta dal luogo di cui sopra del XII dell’Eneide, a testimonianza di un non episodico e casuale interesse di Landolfi verso i tempi di svolta, nei quali i conti vengono chiusi bruscamente e chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato: legge che vale sempre, ma con maggiore evidenza e direi ingiustizia proprio in quei tempi, suoi e in parte nostri. Amara riflessione rafforzata, nella stessa raccolta, dalla poesia “Il sovescio” che termina con questi versi: “Ecco ho trovato, un sovescio / È la nostra vita: maturi, / Siamo sepolti”. Ora, il sovescio è la pratica di sotterrare un frutto o una pianta al fine di fertilizzare le colture che si faranno sullo stesso terreno nel prossimo ciclo; e anche qui pare di capire che Landolfi si riferisca non tanto in generale alle perenni leggi della vita, quanto in particolare ai sacrifici imposti a certe generazioni e/o culture, in nome di un futuro che viene annunciato come migliore ma che si svela poi come sempre più cupo e più ingiusto, anche perché sempre meno si può invocare per esso la relativa inconsapevolezza delle origini.
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