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Orazio ora parla sloveno (ma beve sempre italiano)

Da Fabry2010

Su M. Kravos, Terra da masticare, Empoli, Ibiskos Editrice Risolo, 2009.
Orazio ora parla sloveno (ma beve sempre italiano)
di
Roberto Nassi


Terra da masticare è il titolo della recente antologia poetica bilingue del poeta sloveno residente a Trieste Marko Kravos. Un libro in cui le parole si mettono in riga sul filo della ragione e lambiscono, funambole, follie ed eccessi, retorica e false speranze, irrazionalità e vanagloria dell’uomo contemporaneo. Sono parole che si imprimono di cose, alla larga dai balbettii del «cieco fondale dell’io».

La lucidità critica e del dettato, quasi illuministiche, come quelle, oggi, di un Enzensberger, si coniugano col senso della misura e la malinconia soffusa di ascendenza oraziana. E, proprio come nel poeta di Venosa, la medietas si informa in una varietà di modulazioni governate da un sovrano senso del ritmo e da un verso che ora rasenta la colloquialità ora si fa più teso e lirico ora meditativo ora si sbriglia in giambiche sprezzature.

Ma inutile in queste pagine cercare di Orazio la retorica civile o dell’illuminismo la fiducia incrollabile nella forza di redenzione storica e sociale della ragione. Meglio l’umile patata della retorica patria mentre l’ottimismo delle magnifiche sorti e progressive lascia il campo a una disillusione suprema. Quella del poeta è la ragione del sapiens ripiegata su se stessa e disposta a difesa: anche se l’odi profanum vulgus et arceo che si sente nell’aria qua e là è più la constatazione di un osservatore che sa di far parte inevitabilmente anche di quel vulgus che una rivendicazione di superiorità morale o intellettuale.

Che vede il sapiens dalla sua postazione in mezzo ai compagni di viaggio? Tutto un agitarsi degli animali razionali, chi tronfio, chi piagato, chi fortunato chi sventurato, tutti frenetici in un mondo di nebbia dove le cose cambiano per rimanere le stesse: «chi nasce prato viene calpestato», «la storia è baldoria, spasso da cani», «ad alcuni la vincita ad altri la colpa» e il mondo «è una banana storta».

I versi si succedono imbastiti su antifrasi ironiche, irriverenti, amare, giustapposizioni di visioni macro e microscopiche, squarci di storia e immediata quotidianità; il loro disincanto non risparmia nulla (se non l’amore e la gioia da afferrare nell’istante): civiltà (il «caos che in fondo piace»), progresso («il satellite un arcangelo della pace»), religione («Non pretendere però che canti l’osanna / a chi mi tende la rete a maglia fitta») e ha sbiadito al poeta la fede politica, infiacchito l’impegno civile. Di più. È perfettamente consapevole, lui, il poeta, di stare con la forza della sua ragione e del buon senso «saldamente in una barca inaffondabile / nel mio intimo profondo. Nel buco di un pozzo».

Basterebbe osservare la costante valenza negativa dei manufatti (mentre all’opposto un aggettivo come nudo è sempre portatore di significati positivi, connessi alla libertà, alla naturalità, alla verità, alla genuinità), anche i più semplici e antichi, le scarpe, un vecchio cappello, per non farsi illusioni sulla fiducia che il nostro ripone sul progresso e la tecnica; non del potere, sono piuttosto i segni della rovina a cui l’uomo si autocondanna, le «coperture / della malvagità» di «un oggetto senza Dio» che «con sé congiunto se stesso adora / sé sulla croce inchioda / e di nuovo infetta». Così l’esistenza si trascina nel perenne annuncio di una tragedia conclusiva che non può essere tale; piuttosto un grottesco vaudeville sommerso dal fragore di una risata.

Come nell’antica poesia gnomica la natura è un attante primario. Qui al locus amoenus è decisamente preferita l’integrità e la vitalità del locus horridus. Tuttavia non c’è neppure l’illusione di una natura benigna. È vero che «il paese di Marko» è terra di «lande senza piste» in cui scorazzare con le capre, con i tori e addosso la «meravigliosa puzza d’uomo» e il corpo di una donna, ma questa è solo una visione, una tregua «nello spietato, insensato sogno di ogni giorno». La natura, che nella sua follia l’uomo moderno anziché aspirare a conoscere e rispettare continua a cercare di irretire e contrastare sperando di adeguarla «alle quotazioni in borsa», illuso di riuscire a dominarla, è sorgente insieme di gioia e di terrore; natura è pure il nostro disgregarci nella morte e ricomporci in mela, uccello, filo d’erba.

Pervase, la natura come la poesia, da un’ambiguità da cui sprizza intensità di valori poetici. L’erba lambisce i confini dell’amore (sopra) e della morte (sotto), «la pietra si adagia accanto a te e canta» se, morto, «stendi le radici», la terra è madre ma pure a questa madre si chiede (come, in altro luogo, a Dio) «espellimi dal ventre, / sgravati il cuore, / dammi alla volta del cielo, / madre oscura».

Il motivo della morte è sempre incombente, ora velo sfumante la nettezza del dettato, ora tremore tenuto a bada, con gesto di consumato simposiarca, dall’esorcismo del vino e da quello dissacrante della risata, ora, semplicemente, infiltrato nell’antefatto di una vita inquadrata: «nel quadro del letto/ nel quadro del tavolo / nel quadro di porta e finestra. // Sono ancora una farfalla / le mie ali vibrano ancora? / Lo spillo mi rasserena».

Eppure è tutt’altro che cupa e accigliata questa poesia. La riscattano un’ariosa attitudine ludica verso la parola e le risorse di uno sguardo nutrito da una fantasia lieve e fiabesca (Kravos è anche autore di fiabe e storie per ragazzi) che trasfigura motivi e umori e addolcisce la vena satirica come il logico e umorale disincanto. Una fantasia che mescola e fonde gli attanti poetici in piccoli mondi creati. Se ognuno viene al mondo «come passero in strada» ecco che, per potere di una personale trinità – «il vento la bella addormentata l’unicorno» – racchiusa in una bacca di ginepro, «noi passeri ripasseremo qui attorno»: la similitudine diventa coincidenza; la morte superata in un lampo, stordita forse, anche solo per un attimo, dalla magia della parola. La stessa che di un quartetto di mano labbra bocca e ciliegia sa fare un intreccio inestricabile e concreto che vien voglia di leccarsi le dita e che, come nella lettura Hillmaniana del codice dell’anima, ci propone uno sguardo a testa in giù dell’albero genealogico: «un uomo / scalzo e mingherlino / mai sarebbe diventato mio padre / se non fosse stato per il mio zampino».

Marko Kravos ha l’occhio sornione. Nel risvolto di copertina si fa fotografare di tre quarti con un calice di vino rosso in mano. Orazio, rasata la barba e tolti gli occhialini s’intende, me lo sono sempre immaginato così.


Postilla.
Terra da masticare reca in esergo una dedica «a tutti i traduttori di poesia» e le versioni italiane sono in effetti il frutto del lavoro e della passione di un manipolo di traduttori: Darja Betocchi, Jolka Milič, Kravos stesso supportato da due poeti amici: Roberto Dedenaro e Luciano Morandini, la cui raccolta Camminando camminando è stata tradotta in sloveno proprio da Kravos. Luciano Morandini, si è spento il 16 settembre 2009 all’età di ottantun anni. Era uno di quegli uomini che, appena incontrati, ti sembra di conoscere da sempre, di quei poeti per cui la poesia può trovare radici solo nell’onesta pratica di vita. Di quegli spiriti di cui oggi abbiamo tremendamente bisogno. L’ultima volta che l’ho incontrato, ricordo, mi ha letto alcuni “quadri” di una serie ancora aperta intitolata L’aquilone (ora in: Luciano Morandini, Il filo dei giorni, Hammerle Editori, 2011). Versi vividi e chiari, come sempre i suoi, attraversati dall’immagine leggera e infantile di un aquilone che col suo filo collega tempi sogni e persone. Era la poesia di un poeta bambino, dell’«amalgama di un bambino e di un uomo riuniti in una sola persona», come, proprio in punto di morte, ha scritto il suo caro Saba. Erano la poesia e il messaggio di un uomo che, per niente intristito dagli anni né rassegnato al quotidiano svilimento della parola in vuota chiacchiera o grido imbarbarito, continuava a cercare con fede incrollabile «fili e fiocchi luccicanti» e «luce» e «liberazione d’angeli / sepolti tra mille scorie».



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