di Francesco Trupia
Immaginare il Brasile, la realtà geograficamente dominante dell’America Latina, come un Paese qualsiasi è un errore che molto spesso viene commesso da molti commentatori politici. Appare impossibile analizzare o cercare di decifrare gli avvenimenti brasiliani slegandoli da quei contesti politici, economici, sociali o finanziari, che rendono il gigante latino-americano uno dei simboli più importanti per biodiversità e tradizione indigena dell’intero continente.
Lo sviluppo ha fatto parte di un collegamento endogeno riflesso sia nel commercio internazionale sia nella crescita regionale e nei programmi sociali di lotta alla povertà. Questo si è notato nell’export della soia, uno dei mercati più redditizi e spesso fattore di identificazione nazionale, così come nella descrizione finanziaria dell’inflaflução, termine coniato dal banchiere Edmar Bacha in riferimento all’altalenante derby calcistico tra Flamengo e Fluminense.
Pochi Paesi al mondo hanno attualmente una capacità vocativa come quella del Brasile, nonostante l’idea dominante nell’immaginario collettivo è spesso stretta tra vecchi stereotipi (calcio, samba, carnevale) e retaggi del passato recente (dittatura militare, iperinflazione, disuguaglianze sociali, violenza urbana), che non hanno reso giustizia ad una realtà che più di altre nel Continente e nel mondo ha saputo creare un proprio modello di sviluppo puntando ad affermarsi come un attore influente nello scacchiere internazionale.
Lo slogan sul vessillo brasiliano Ordem e Progresso, scelto dai fondatori della patria nel 1989 perché motto di una delle più fortunate religioni dell’umanità, ossia il positivismo, sembra descrivere bene quella che oggi è nota come “l’industria dello sviluppo” dell’America Latina. Proprio la teologia filosofica del positivismo, volta all’apertura verso l’intervento nei Paesi meno sviluppati, sembra aver caratterizzato il pensiero politico brasiliano con la strategia di «industrializzazione in sostituzione delle importazioni» [1], che ha spinto il Paese ad essere sempre più presente in Africa o negli hot–spot del Terzo Mondo.
La lunga corsa sviluppista del Brasile che, iniziata tra il 1956–1961, con le politiche dell’allora Presidente Juscelino Kubitschek de Olivera, che inaugurando uno dei primi programmi di sviluppo nazionale puntava a creare cinquant’anni di sviluppo in cinque, sottraeva il Paese all’economia delle piantagioni in cui era stato ridotto dal colonialismo e dallo stesso sottosviluppo causato anche dall’incapacità della propria classe politica di promuovere un modello alternativo a quello praticamente unico basato sul latifondo.
Non deve quindi sorprendere che, con il raggiungimento di una ragionevole stabilità economica e politica, non esente da problematiche interne e periodi di recessione, il Brasile abbia iniziato una marcia che lo ha portato a bruciare le tappe dello sviluppo.
Se i Campionati del mondo di calcio FIFA 2014, organizzati in Brasile, dovevano rappresentare la consacrazione internazionale di un gigante in crescita, l’inflazione al 6% e le proteste popolari, hanno rallentato quel processo di leadership globale che dovrebbe culminare nel 2016 con l’organizzazione dei Giochi Olimpici estivi. Proprio quest’ultimi, che si terranno a Rio de Janeiro dal 5 agosto al 21 agosto 2016, dovrebbero sancire nell’immaginario dei policy maker brasiliani non solo la consacrazione internazionale del Paese, ma anche una ripresa dell’economia nazionale, dopo alcuni di bassa crescita. Nonostante tali aspirazioni l’attuale scenario politico, economico e sociale non sembra offrire segnali positivi in questa direzione.
Al di là delle recenti difficoltà dell’esecutivo, il principale quesito da porsi è se la politica di crescita varata dal sindacalista Lula potrà sopravvivere anche durante il secondo mandato di presidenza Rousseff o, altrimenti, se la leader petista dovrà abbandonare le idee fin qui perseguite dal suo governo cercando una ridefinizione della propria strategia politica capace di realizzare un nuovo compromesso tra ordem e progresso.
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