Il mito li conosce come fratelli. Qui, Oreste ed Elettra sono un’altra storia, sono la sottile e intima complicità che dalla vita familiare esce per invadere il mondo, sono il contenuto e composto accordo di anime della tela di De Chirico, sono il ritrovarsi nel mondo in un’intima corrispondenza di affettività patite, sono il viaggio mistico verso sotterranei effluvi di sensibilità rarefatta e dagli odori intensi.
Quando si conobbero, ancora non sapevano, ma un viaggio, quel viaggio, li avrebbe aiutati. Oreste ed Elettra avevano deciso abbastanza rapidamente il luogo in cui avrebbero destinato le loro energie in un fine settimana che avrebbe dovuto essere molto di più di uno stacco dalle loro antitetiche, ma complementari nevrosi. Elettra propose una direzione, Oreste rispose con l’entusiasmo di un bambino.
In quell’antico borgo, che i natali diede a un noto umanista della nostra storia e dall’angelico nome, Elettra aveva trascorso un paio di estati della sua fanciullezza, sospinta dalla passione paterna verso l’alchemica trasformazione delle pregiate uve, in quella zona maternamente coltivate, in un vino nobile dalla leggerezza densa e volatile che verso inesplorate dimensioni umane doveva avere condotto il proprio padre prima della rinuncia a un’idea complessa di libertà.
Oreste ed Elettra un viaggio sentivano di doverlo fare e, in quell’aria tersa e azzurra e irrorata dal gocciolio autunnale di certe giornate di ottobre, partirono. Oreste di terre toscane conosceva poco e, fiducioso della guida femminile e curioso di un maschile paterno caro alla compagna, volgeva lo sguardo al di fuori del finestrino di un treno lento e dimesso che pareva indurre gli ignari viaggiatori all’abbandono dei frenetici ritmi cittadini verso spazi campestri dell’anima. Di tanto in tanto, la sua visuale si spostava verso la compagna, salda in apparenza e timorosa degli sguardi antichi di anziani signori poco abituati alle effusioni esterne di amori forti e strani, tutte le volte in cui Oreste avrebbe voluto posare le sue labbra su quel viso corrucciato dai ricordi che incominciavano a premere su un cuore spaventato. Oreste sapeva che la sua compagna era fatta così, ma sperava, spesso, che il miracolo si compisse:che la bocca e gli occhi si aprissero, d’un solo colpo, alla vita, dimentichi di un triste passato, che anche lui, seppure in forme proprie, aveva conosciuto e che con lei, al suo fianco, si dileguava.
Arrivarono a destinazione in un tardo pomeriggio di aabato ed ebbero l’impressione che lo spazio, il tempo, i ruoli noti fossero stati lasciati alla stazione da cui il viaggio aveva avuto origine. Montepulciano, al calare del sole, era divenuta, nella sua piazza grande e piccola, l’eternità di un momento. Un non luogo in cui procedere con strumenti nuovi rispetto all’ordinario del quotidiano cammino. La penombra in cui il borgo lentamente si avvolgeva verso una notte che sarebbe stata piovosa e silente metteva Oreste ed Elettra di fronte alla necessità di rispolverare canali di comunicazione nuovi o poco frequentati.E, poi, la bellezza della piazza sospesa nel tempo e nello spazio, le terrazze verso il mondo piacevolmente lontano, i vicoli stretti dal curioso accenno di scorci verso strade in apparenza sconosciute, che a ben guardare, su attendibili cartine, non erano altro che un rinnovato punto di vista dell’oggetto dai più raggiunto attraverso vie più note, l’oscurità sapientemente accompagnata da fioche luci a rimembrare quanto anche di essa ci sia bisogno, in un’alternanza di luce e ombra in cui la natura ritrova la propria identità in una mutevolezza continua che è garanzia di evoluzione.
Oreste rapito dalla notturna dimensione, vedeva la sua compagna spegnersi al lento abbandono del sole verso lidi più intimi dietro agli storici e imponenti palazzi del centro. Elettra ricordava: la visita alle sacre cantine del borgo con un papà felice, la coscienza della propria infima condizione di acerba fanciulla nel confronto con le grandiose e monumentali botti in rovere che dovevano contenere molto di più del nutrimento di Bacco, quasi certamente spiriti di una storia antica e di vite vissute in conflitto con le comuni regole di un tempo chiuso, l’orgoglio di sapersi importante nella vita di un padre che, del vino da portare nella sua valigia di tangibili segni del passaggio in quel borgo, scelse, per imperscrutabili ragioni, l’annata in cui la figlia ribelle vide la luce.
Elettra era entrata in un vorticoso tunnel che lontano la portava a rimembrare un tempo felice, fondato su certezze familiari, su ruoli precostituiti, sull’ignoranza della caducità delle cose radicata nella fragilità di una vita non ancora conosciuta, eppure già temuta in anfratti che il tempo avrebbe trasformato in voragini di risucchio in fasi di acuta spersonalizzazione e di abbandoni a forze dispotiche di origini commiste di padre e madre spaccati e disorganizzati.
Uscendo dal silenzio, Elettra disse ad Oreste:”Quando qui venni per la prima volta, non sapevo ancora che mio padre eterno non sarebbe stato. E, in questo non sapere, nell’abbarbicarmi a fratelli e sorelle, a padre e madre, credevo sarei stata felice per sempre”. Oreste la guardò negli occhi e si commosse. Conosceva il senso di quelle parole e le strinse forte la mano, quasi avesse voluto fondere la sua in quella dell’amata compagna, a dirle che dalla solitudine dell’infrangersi dei sogni di fanciulli si esce con un amore altro e nuovo, quello che apre verso l’esterno e il mondo conosciuto.
Girarono a lungo i due compagni di viaggio, prima di volgere verso la casa di campagna in cui avrebbero passato la notte. Quando dal centro abitato, lungo strade impervie e non illuminate, si incamminarono per proseguire i loro scambi verbali su maturità difficili ed evoluzioni umane, su ricordi di vite familiari scarsamente inducenti a scatti fisiologici e importanti nella vita di un uomo, si accorsero di essere immersi nel buio. Il tratto era breve, ma la loro paura, quella di Elettra e quella di Oreste, per la prima volta si toccarono e i due latori della medesima compresero, in un istante, la loro fragilità e l’impossibilità dell’uno di aiutare l’altro.
Oreste non poteva salvare Elettra ed Elettra non poteva salvare Oreste.
Elettra e Oreste, ritrovatisi dallo smarrimento in prenatali bui, poi rivelatisi brusche accoglienze materne, diedero sfogo ad estri creativi di culinaria veste e sentirono di stare bene.
Oreste e la sua follia immaginifica proponeva visioni passate e future, alcune molli e leggere che aprivano il cuore e il sorriso di Elettra, altre più solide e definite, che di lì a poco sarebbero divenute quadri, tele dipinte dei colori dell’anima dolce di un uomo sensibile. Il vino nobile era solo l’amabile spunto verso terre nuove, verso luci di sorrisi larghi e sinceri, verso suoni acuti di esplosioni di risate felicemente ondeggianti nello spazio di una sera speciale. Quando Oreste ed Elettra andarono a letto, qualcuno dovette vederli sorridere.
Elettra volle credere che quel qualcuno si chiamasse Francesco e avesse le sembianze di un padre volato via verso libertà nuove. Quando si svegliarono, a loro parse che fosse passato un secolo, una vita, una dimensione, un’era. Raggiunsero, per l’ultima volta, il borgo che, in quella domenica mattina, nel risvegliarsi alle abitudini degli attenti, ma tranquilli abitanti del luogo, pareva essersi rinnovato, essersi a festa vestito in una pascoliana rimembranza di tempi antichi.
Lentamente, Oreste ed Elettra si avviavano al termine del viaggio. Sentivano suonare le campane a festa, guardavano la gente osservarli felici e sentivano che di nulla avevano bisogno. D’un tratto, avevano realizzato l’accadere di un movimento dentro che aveva divelto inutili gabbie di rassicurazione mentale e li aveva condotti verso pianeti che il Penteo di euripidiana memoria non avrebbe saputo reggere. In quel viaggio, la mente era rimasta fuori. E saturnine oscurità avevano incominciato a trovare la loro perfetta inclinazione.
Oreste ed Elettra avevano ancora paura, ma ora lo sapevano. Sapevano che potevano affrontarla. E ciò li rincuorava lungo la strada di “casa”.
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