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Ornaghi zittisce Umbria jazz. E va di liscio…

Creato il 04 novembre 2012 da Albertocapece

Ornaghi zittisce Umbria jazz. E va di liscio…Anna Lombroso per il Simplicissimus

In attesa di finanziare Gigi D’Alessio e l’orchestra Casadei, espressioni purissime della cultura e della tradizione italiane, il Ministro Ornaghi ha comunicato con una lettera ufficiale la sua decisione di tagliare drasticamente i fondi fino ad oggi devoluti ad Umbria Jazz, per via di una non meglio identificata «mancanza di criteri di qualità».
Insorgono melomani e jazzofili e hanno ragione, la manifestazione (arrivata nell’edizione estiva al quarantennale e in quella invernale di Orvieto al ventennale) si è conquistata autorevolezza mondiale tanto che – ricorda il presidente Arbore, “siamo un’eccellenza, proprio come la Ferrari. Tanto da aver meritato intere pagine sul New York Times che ci elogiava proprio per il nostro stile italiano, ormai non più secondo a nessuno per preparazione, innovazione e qualità. Musicisti come Bollani, Rea, Rava, Petrella, Fresu sono ormai i migliori al mondo e non lo diciamo noi ma la stampa specializzata. Umbria è il festival jazz più importante del mondo, secondo solo forse a Montreal in Canada…. E come veicolo promozionale dell’Italia all’estero il Jazz italiano è secondo solo al melodramma e certamente è davanti alla canzone e alla musica pop”.

Si dice che il Ministro Ornaghi stia al Ministero dalla mattina alla sera, ma fino ad oggi della sua instancabile missione abbiamo notizie frammentarie. La sua attività sembra consistere in una silente seppur entusiastica accettazione di qualsiasi azione estrometta dal processo decisionale il suo dicastero, di qualsiasi misura ne retroceda le competenze a garbate raccomandazioni di una zia un po’ svanita, di qualsiasi provvedimento abbia l’intento dichiarato di consegnare il patrimonio pubblico e i beni comuni a privati, espropriando lo Stato pasticcione e quindi anche noi. Tanto gli si addice il taciturno riserbo che ha accolto con euforica approvazione l’istituto del silenzio assenso, e ridotto a 45 giorni, nelle aree sottoposte a vincolo.

Ogni tanto esce dal letargo con esternazioni e decisioni improvvide o inopportune che ci fanno rimpiangere il suo appartato e abituale isolamento: nomine discutibili, da quella dell’ ancora deputata Melandri al Maxxi, del quale la incontentabile ex ministra rivendica la maternità, a quella a sovrintendente del polo museale di Roma della sorprendente fan dei lucchetti di Ponte Milvio ai quali ha dato ricetto nel Museo Etnografico dell’Euro, nella loro qualità di reperto precoce della nostra contemporaneità. E non conforta la sua difesa, fino alla soglia del carcere, di Marino Massimo De Caro, conservato dalla precedente gestione e remunerato con ben 40 mila euro l’anno per dirigere la Biblioteca dei Girolamini – grazie alla preziosa competenza maturata nel corso di una fertile collaborazione con Dell’Utri – e dalla quale ha sottratto 4000 libri.

Insomma al Ministro piace l’improvvisazione tanto dinamica e futurista, da sconfinare nell’uso improprio: nella composizione del Consiglio Superiore dei Beni Culturali spiccano una professoressa emerita di Scienze politiche, il rettore dell’università di Milano, uno storico contemporaneo, Enrico Decleva, un altro rettore, di un’università privata, la Suor Orsola Benincasa di Napoli, filosofo del diritto e il preside della facoltà di Psicologia dell’università Cattolica, quella della quale Ornaghi è rettore, Albino Claudio Bosio, docente di Piscologia del marketing, specializzazione che la dice lunga sui propositi governativi in materia di beni culturali.
Si dirà, ma uno storico dell’arte c’è. In effetti Antonio Paolucci potrebbe essere un uomo giusto al posto giusto, peccato che quel posto giusto lo ricopra già: è infatti il direttore dei Musei Vaticani, quindi dipendente di uno stato estero. E sul versante del marketing sarà meglio che si faccia consigliare dal Bosio, se ha fatto acquistare incautamente allo stato italiano il finto crocifisso di Michelangelo e ha donato alla Curia di Firenze diciassette miliardi di vecchie lire per una collezione d’arte che purtroppo era già vincolata alla pubblica fruizione.

Chissà dunque in che cosa consisterà la qualità della produzione e fruizione creativa e artistica per questo estemporaneo e singolare parterre di tecnici, più ottuso e provinciale del regime che la “musica dei negri” l’aveva accolta, ascoltata, suonata, al punto che il figlio del duce ne fece la sua passione e il suo mestiere, corrotto dal 78 giri Black Beauty del jazzista “negro” e americano Duke Ellington, e se passarono attraverso sound, ritmo e improvvisazioni “Vivere”, “Vento” e gran parte delle canzonette care al regime.
È che al neo-conservatorismo dell’ideologia di riferimento di Ornaghi e dei suoi affini si addice il pregiudizio, perché così mantengono e tutelano interessi e valori cui potrebbero attentare il pensiero, l’innovazione, la creatività, la libertà soprattutto, quella benedetta libertà che ispira intelligenza, curiosità, parole e note. A loro probabilmente il jazz fa la stessa impressione che a Bragaglia “Musica ammattita e gambe storte, suoni fischianti, urli di sirene e crepitare di motori”, che piace solo allo “snobismo anglosassone”, a una “degenerazione” morale incantata dall’esotismo delle “negrerie”, che culmina nell’invettiva: “come uomini, ci sia rispetto umano fra tutti, ma poi, che debbano venire i negri a insegnarci cosa è arte, o magari cosa si deve fare come divertimento”, be’, questa poi…”.
D’altra parte anche Omero sonnecchia e, tanto per citare un esempio, Gramsci, nel contesto di una “piccola discussione ‘carceraria’ svoltasi a pezzi e bocconi”, con la cognata Tania, assolve il buddhismo dalla responsabilità “di un innesto dell’idolatria asiatica nel ceppo del cristianesimo europeo”, m punta il dito contro il jazz: “se un pericolo c’è, è costituito piuttosto dalla musica e dalla danza importata in Europa dai negri. Questa musica ha veramente conquistato tutto uno strato della popolazione europea colta, ha creato anzi un vero fanatismo. Ora è impossibile immaginare che la ripetizione continuata dei gesti fisici che i negri fanno intorno ai loro feticci danzando, che l’avere sempre nelle orecchie il ritmo sincopato delle jazz-bands, rimangano senza risultati ideologici”.

Pensavamo che il tempo fosse passato e avesse lavorato contro il pregiudizio, almeno quello musicale, che almeno l’armonia fosse uscita rafforzata dal secolo breve, se il suo interprete più lucido, Hobsbawm, con uno pseudonimo per nulla casuale: Francis Newton, il trombettista di Billie Holiday in Strange Fruit, divenne uno scrittore del jazz, non un critico, né uno storico, ma il cronista di un mondo fatto non solo di musica bensì anche di persone. Perché a lui interessava la società che si muoveva intorno al jazz, un cosmo notturno di anime mosse da “suoni portatori di rivoluzione”.
Eccola la spiegazione: è possibile che nella prima esuberante stesura della lettera del Ministro – poi corretta secondo l’antico costume ripreso dalla Fiat – gli interventi di contenimento delle risorse operati su Umbria Jazz fossero motivati dall’intento di punire i jazzisti, come “storici oppositori”, o di ristabilire la forza della consuetudine, magari con le parole di Carlo Ravasio sul Popolo d’Italia: “E’ nefando e ingiurioso per la tradizione, e quindi per la stirpe riportare in soffitta violini, mandolini e chitarre”.
Eh si, perché questa Italia in liquidazione si vende meglio se rispetta lo stereotipo, quello di Pulcinella, delle furbizie delle nostre maschere che scaturiscono dalla miseria, quello della pigrizia accidiosa, quello delle canzonette, della pummarola, dei mandolini, di ‘o sole mio., ultimamente molto celebrato da esponenti del governo.
E allora mettiamo un po’ di jazz nella nostra collera.


Filed under: Anna Lombroso Tagged: fondi, musica, Ornaghi, Umbria jazz

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