A quasi un anno di distanza, National Geographic ha mandato in onda un documentario che racconta per filo e per segno il famoso blitz che ha portato all’uccisione di Osama Bin Laden il 2 maggio scorso. Il resoconto in Italia è stato redatto da La Stampa.
L’operazione inizia da lontano, almeno nel 2007. L’allora capo della Cia Micheal Hayden ammette che avevano perso da tempo le tracce dello Sceicco del Terrore. L’unica strategia percorribile per stanarlo era quella di seguire i corrieri a cui si affida visto che non ricorre a mezzi elettronici per comunicare con le varie cellule.
La caccia al corriere più fidato dura tre anni e si conclude quando l’esercito pakistano riesce a intercettare le telefonate di Abu Ahmed al Kuwaiti, ritenuto il collaboratore più fedele. La chiamata viene inoltrata alla Cia che lo localizza: si trova a Peshawar, su un furgone bianco che spesso percorre il tragitto che porta ad Abbottabad, 65 km da Islamabad.
Il compound desta subito attenzione: non è come gli edifici adiacenti, è recente, imponente, ha i balconi recintati con muri. C’è pure un terzo piano abusivo. L’abitazione viene messa sotto osservazione dalla National Security Agency con satelliti e droni. È un black spot: non ha linee telefoniche, internet e collegamenti esterni. A ciò si aggiunge l’osservazione diretta degli agenti della Cia, mischiati nella popolazione pakistana: tutto a occhio nudo, perché dei mezzi hi-tech sarebbero stati troppo appariscenti.
Nel dicembre 2010, Leon Panetta suggerisce a Obama di agire celermente, prima che qualcuno possa insospettirsi. Rimane però senza certezza la questione principale: Osama è lì? Secondo il Capo della Cia le possibilità si aggirano intorno al 60%, ma nessuno, ovviamente, ha avuto l’opportunità di identificarlo.
Le opzioni per l’operazione sono tre: un assalto di terra coadiuvato dai pakistani, un bombardamento con i B2 e un blitz delle forze speciali elitrasportate. Viene scelta la terza via perché aveva la maggior possibilità di portare alla cattura o al riconoscimento di Bin Laden (e forse non ci si fidava così tanto di Islamabad).
L’addestramento dei 24 soldati del Red Squadron dei Navy Seals inizia il 10 aprile 2011. Per cinque giorni vengono provate nel dettaglio tutte le manovre tra l’entusiasmo e l’adrenalina dei soldati che non vedevano l’ora di poter scrivere un capitolo decisivo nella lotta al terrorismo.
L’ultima valutazione sui rischi è affidata a Michel Leiter, allora diretto del Centro Nazionale Anti Terrorismo. Con un’analisi accurata di tutti gli elementi, stabilisce che la percentuale che il Capo di Al Qaeda sia nel compound oscilla tra il 38 e il 70%, anche la minima era comunque la più alta da dieci anni. Alle 8.20 del 29 aprile il Presidente convoca i consiglieri e decide di dare il via all’operazione Neptune Spear. Il primo maggio le visite alla Casa Bianca vengono sospese.
Due elicotteri Black Hawk, invisibili ai radar, decollano dalla base di Jalalabad, in Afghanistan, alle 23, ora locale. A bordo 23 Navy Seals, un interprete e un cane segugio. Dopo 45 minuti lasciano terra anche due elicotteri Chinhook, come supporto, che atterreranno in un’area deserta a tre quarti della rotta tra la base e il complesso. Obama e i consiglieri, nell’ormai celebre Situation Room, seguono gli eventi grazie a un drone che trasmette segnali video da 4600 metri di altezza.
Dopo due ore i Black Hawk raggiungono la meta. Il progetto prevedeva l’atterraggio di uno nel cortile del compound e l’altro sul tetto. Ma la manovra fallisce: uno dei due perde il controllo mentre sorvola le mura esterne e precipita al suolo. La missione è a un passo dall’essere abortita, ma nello schianto non ci sono vittime tra i 12 Navy Seals e quindi si continua con il Piano B.
Tutte le porte vengono fatte saltare con degli esplosivi. I botti svegliano i vicini, tra cui Ishan Khan, giornalista di Voice of America, famoso per i tweets a proposito dell’elicottero caduto. La Red Squadron entra nell’edificio a gruppi di tre e a questo punto la Casa Bianca è all’oscuro di quello che succede, visto che il drone non può vedere all’interno. I militari vengono accolti da Al Kuwaiti che spara loro contro ma viene immediatamente freddato. Si dirigono verso le scale perché si supponeva Bin Laden si rifugiasse al terzo piano, si trovano di fronte delle barriere e le fanno saltare in aria.
Al secondo piano c’è il figlio di Bin Laden, che viene ucciso. Lo Sceicco del Terrore è all’ultimo piano, in fondo a un corridoio, insieme alla moglie più giovane e alla figlia maggiore. Lo inseguono tre Navy Seals. Le donne gli fanno da scudo, un soldato teme possano indossare dell’esplosivo e spara alle gambe della moglie. Un altro mira dritto a Osama e fa partire due colpi: uno centra il petto, l’altro la testa. A questo punto la comunicazione in codice al Presidente: “In nome di Dio e della Nazione, Geronimo, Geronimo, Geronimo”.
I Navy Seals si trattengono per altri 20 minuti nel compound e raccolgono 5 computer, 10 hard disk, 110 pen drive e un diario scritto a mano, mentre all’esterno quattro agenti e l’interprete tengono alla larga gli abitanti del posto. Un medico preleva un campione di DNA dal corpo di Osama, l’elicottero caduto viene fatto esplodere e lo squadrone si allontana con il Black Hawks restante all’1.45.
Il commento a caldo di Obama è “avete fatto un ottimo” lavoro. Poco dopo parla alla Nazione: “Osama Bin Laden è stato ucciso, giustizia è fatta”. Il cerchio aperto l’11 settembre 2011 è chiuso.