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Oscar Wilde – Il critico come artista 7

Creato il 27 dicembre 2012 da Marvigar4

il critico come artista

OSCAR WILDE

IL CRITICO COME ARTISTA

Con alcune considerazioni sull’importanza del non fare niente

Titolo originale: The Critic as Artist – With some remarks upon the importance of doing nothing

Traduzione dall’originale in inglese di Marco Vignolo Gargini

ERNEST. Dobbiamo allora rivolgerci all’Arte per tutto?

GILBERT. Per tutto. Perché l’Arte non ci ferisce. Le lacrime che versiamo a teatro sono un tipo di emozioni squisitamente sterili che è funzione dell’Arte risvegliare. Noi piangiamo, ma non siamo feriti. Ci addoloriamo, ma il dolore non è penoso. Nella vita vera dell’uomo il dolore, come dice Spinoza in qualche punto, è un passaggio a una perfezione inferiore. Ma il dolore di cui l’Arte ci colma, se posso una volta ancora citare dal grande critico d’Arte dei greci, ci purifica e ci inizia. È attraverso l’Arte, e solo attraverso l’Arte, che noi possiamo realizzare la nostra perfezione; attraverso l’Arte, e solo attraverso l’Arte, che noi possiamo farci scudo dei sordidi pericoli dell’esistenza vera. Questo risulta non soltanto dal fatto che niente che si possa immaginare è degno dell’azione, e che si può immaginare qualsiasi cosa, ma dalla legge sottile che dice che le forze emotive, come la forza della sfera fisica, sono limitate in estensione e energia. Si può sentire fino a un certo punto e poi non più. E come può importare con quale piacere la vita cerchi di tentare, o con quale dolore tenti di storpiare e sporcare l’anima, se nello spettacolo delle vite di coloro che non sono mai esistiti si è trovato il vero segreto della gioia, e pianto le proprie lacrime sulla morte di chi, come Cordelia e la figlia di Brabanzio, non potrà mai morire?

ERNEST. Fermati un attimo. Mi sembra che in tutto quello che hai sostenuto c’è qualcosa di radicalmente immorale.

GILBERT. Tutta l’Arte è immorale.

ERNEST. Tutta l’Arte?

GILBERT. Sì. Giacché l’emozione per l’emozione è il fine dell’Arte, e l’emozione per l’azione è il fine della vita, e di quella organizzazione pratica della vita che noi chiamiamo società. La società, che è l’inizio e la base della morale, esiste semplicemente per la concentrazione dell’energia umana, e per garantire la sua propria continuità e sana stabilità pretende, e indubbiamente ha ragione a pretendere, da ciascuno dei suoi cittadini che contribuisca con una qualche forma di lavoro produttivo al benessere comune, e fatichi e travagli perché il lavoro quotidiano sia compiuto. La società spesso perdona il criminale; non perdona mai il sognatore. Le belle sterili emozioni che l’Arte eccita in noi sono odiose ai suoi occhi, e la gente è così completamente dominata dalla tirannide di questo orribile ideale sociale che va sempre spudoratamente ai vernissages e in altri posti aperti al pubblico, e dice con voce stentorea e alta, ‘Che cosa fai?’ invece di ‘Che cosa pensi?’, che è la sola domanda che qualsiasi essere civilizzato potrà mai essere autorizzato a sussurrare a un altro. Sono animate da buone intenzioni, senza dubbio, queste oneste raggianti persone. Forse è per questa ragione che sono così eccessivamente tediose. Ma qualcuno dovrebbe insegnare loro che mentre, nell’opinione della società, la contemplazione è il peccato più grave di cui ogni cittadino può essere colpevole, nell’opinione della cultura più alta è l’occupazione appropriata dell’uomo.

ERNEST. La contemplazione?

GILBERT. La contemplazione. Ti ho detto un po’ di tempo fa che era più difficile parlare di una cosa che farla. Lascia ch’io ti dica adesso che non fare niente del tutto è la cosa più difficile del mondo, la più difficile e la più intellettuale. Per Platone, con la sua passione per la sapienza, questa era la forma più nobile d’energia. Anche per Aristotele, con la sua passione per la conoscenza, questa era la forma più nobile d’energia. Era a questo che la passione per la santità conduceva il santo e il mistico dell’era medievale.

ERNEST. Allora, noi esistiamo per non far niente?

GILBERT. È per non far niente che esiste l’eletto. L’azione è limitata e relativa. Illimitata e assoluta è la visione di colui che siede a suo agio e contempla, che cammina in solitudine e sogna. Ma noi che siamo nati alla fine di quest’epoca meravigliosa, siamo a un tempo troppo colti e troppo critici, troppo intellettualmente sottili e troppo curiosi di piaceri squisiti, per accettare qualsiasi speculazione sulla vita in cambio della vita stessa. Per noi la città divina è priva di colore, e la fruitio Dei non ha senso. La Metafisica non soddisfa i nostri temperamenti, e l’estasi religiosa è datata. Il mondo attraverso il quale il filosofo accademico diventa «lo spettatore di tutti i tempi e di tutte le esistenze» non è realmente il mondo ideale, ma semplicemente un mondo di idee astratte. Quando noi vi entriamo, soffriamo la fame in mezzo alla fredda matematica del pensiero. Le corti della città di Dio ora non ci sono aperte. Le sue porte sono vigilate dall’’Ignoranza, e per oltrepassarle noi dobbiamo arrenderci a tutto quanto è più divino nella nostra natura. È bastato che credessero i nostri padri. Essi hanno esaurito la facoltà delle fede della specie. Il loro lascito per noi è lo scetticismo di cui avevano paura. Lo avessero depositato nelle parole, non avrebbe potuto vivere in noi come pensiero. No, Ernest, no. Non possiamo tornare al santo. V’è molto di più da apprendere dal peccatore. Non possiamo tornare al filosofo, e il mistico ci porta fuori strada. Chi, come Mr. Pater suggerisce in qualche punto, scambierebbe la curva di una singola foglia di rosa per quell’informe intangibile Essere che Platone annovera così altamente. Cos’è per noi l’illuminazione di Filone, l’Abisso di Eckhart, la Visione di Bohme, lo stesso mostruoso Cielo che venne rivelato agli occhi senza vista di Swedenborg? Tali cose valgono meno della gialla tromba di un solo asfodelo del campo, meno della più umile delle arti visibili, poiché, proprio come la natura è materia che penetra nella mente, così l’arte è mente che esprime se stessa sotto le condizioni della materia, e così, perfino nella più bassa delle sue manifestazioni, essa parla sia ai sensi che all’anima. Il vago è sempre repellente per il temperamento estetico. I greci furono una nazione di artisti, perché furono privati del senso dell’infinito. Come Aristotele, come Goethe dopo che ebbe letto Kant, noi desideriamo il concreto e solo il concreto può soddisfarci.

ERNEST. Dunque, cosa proponi?

GILBERT. A me pare che con lo sviluppo dello spirito critico saremo capaci di realizzare, non solo la nostra vita, ma la vita collettiva della razza, e così renderci assolutamente moderni, nell’autentico significato della parola modernità. Perché colui per il quale il presente è la sola cosa che sia presente, non sa niente dell’epoca in cui vive. Per comprendere il diciannovesimo secolo, dobbiamo realizzare ogni che ha contribuito a costruirlo. Per conoscere qualcosa di sé bisogna conoscere tutto degli altri. Non deve esserci stato d’animo con cui non si possa simpatizzare, né defunto modo di vita che non si possa far vivere. È impossibile questo? Penso di no. Rivelandoci il meccanismo assoluto d’ogni agire, e così affrancandoci dal peso autoimposto e ingombrante della responsabilità morale, il principio scientifico dell’Eredità è divenuto, per così dire, il garante della vita contemplativa. Ci ha mostrato che noi non siamo mai meno liberi di quanto proviamo ad agire. Ci ha intrappolato con le reti del cacciatore, e ha scritto sul muro la profezia del nostro destino. Possiamo non guardarla, perché è in noi. Possiamo non vederla, salvo in uno specchio che rispecchia l’anima. È la Nemesi senza la sua maschera. È l’ultimo dei Fati, e il più terribile. È il solo e unico tra gli dèi di cui conosciamo il suo vero nome.

E pure, mentre nella sfera della vita pratica e esteriore ha derubato l’energia della sua libertà e l’attività della sua scelta, nella sfera soggettiva, dove l’anima è in funzione, a noi viene, quest’ombra terribile, con molti doni tra le sue mani, doni di strani temperamenti e sottili suscettibilità, doni di ardori selvatici e freddi umori di indifferenza, complessi multiformi doni di pensieri che sono in contrasto l’uno con l’altro, e passioni che lottano contro se stessi. E così, non è la nostra vita che noi viviamo, ma le vite dei morti, e l’anima che in noi alberga non è una singola entità spirituale, che ci rende personali e individuali, creata per il nostro servizio, e che entra in noi per la nostra gioia. È qualcosa che ha abitato in posti spaventosi, e negli antichi sepolcri ha fatto la sua dimora. È affetta da molti mali, e ha memorie di curiosi peccati. È più saggia di noi, e la sua saggezza è amara. Ci colma di impossibili desideri, e ci fa perseguire ciò che sappiamo di non poter ottenere. Una cosa, tuttavia, Ernest, può fare per noi. Ci può condurre lontano da ambienti la cui bellezza ci è oscurata dalla nebbia della familiarità, o la cui ignobile bruttezza e le cui sordide richieste stanno sciupando la perfezione del nostro sviluppo. Ci può aiutare ad abbandonare l’epoca nella quale siamo nati, e passare in altre epoche, e a trovar noi stessi non esiliati dalla loro aria. Può insegnarci a fuggire dalla nostra esperienza, e a conoscere le esperienze di coloro che sono più grandi di noi. Il dolore di Leopardi che grida contro la Vita diventa il nostro dolore. Teocrito suona la sua zampogna, e noi ridiamo con le labbra della ninfa e del pastore. Nella pelle di lupo di Pierre Vidal noi scappiamo davanti ai segugi, e nell’armatura di Lancillotto noi cavalchiamo dal pergolato della Regina. Abbiamo sospirato il segreto del nostro amore sotto il saio di Abelardo, e nel paramento sporco di Villon della nostra vergogna abbiamo fatto una canzone. Noi possiamo scorgere l’alba attraverso gli occhi di Shelley, e quando vaghiamo con Endimione la Luna si invaghisce della nostra giovinezza. Nostra è l’angoscia di Ati, e nostre le fievoli ire e i nobili patimenti del Danese. Credi che sia l’immaginazione a renderci capaci di vivere queste innumerevoli vite? Sì: è l’immaginazione; e l’immaginazione è il risultato dell’eredità. È semplicemente esperienza concentrata della razza.

ERNEST. Ma dov’è in questo la funzione dello spirito critico?

GILBERT. La cultura che questa trasmissione delle esperienze razziali rende possibile può esser resa perfetta solo dalla spirito critico, e infatti si può dire che sia tutt’uno con esso. Perché chi è il vero critico se non colui che porta dentro di sé i sogni, le idee, e i sentimenti di miriadi di generazioni, e al quale nessuna forma di pensiero è estranea, nessun impulso emotivo oscuro? E chi è il vero uomo di cultura, se non colui che con la bella erudizione e meticolosi rifiuti ha reso l’istinto cosciente e intelligente, e può separare l’opera che ha distinzione dall’opera che non l’ha, e così attraverso il contatto e il confronto si rende padrone dei segreti di stile e di scuola, e ne comprende i significati, e ascolta le loro voci, e sviluppa quello spirito di curiosità disinteressata che è la vera radice, com’è il vero fiore, della vita intellettuale, e così attinge alla chiarezza intellettuale, e, avendo imparato «il meglio che si sa e si pensa nel mondo», vive -non è fantasioso dire così- con coloro che sono gli Immortali.

Sì, Ernest: la vita contemplativa, la vita che ha per suo scopo non fare ma essere, e non essere semplicemente, ma divenire – che è ciò che lo spirito critico può darci. Gli dei vivono così: o meditando sulla propria perfezione, come Aristotele ci dice, o, come Epicuro immaginò, osservando con lo sguardo impassibile dello spettatore la tragicommedia del mondo che loro hanno creato. Anche noi potremmo vivere come loro e disporci a testimoniare con appropriate emozioni le varie scene che l’uomo e la natura offrono. Noi potremmo renderci spirituali separandoci dall’azione e diventare perfetti respingendo l’energia. Spesso m’è parso che Browning percepisse qualcosa di questo. Shakespeare getta Amleto nella vita attiva, e gli fa compiere la sua missione con sforzo. Browning avrebbe potuto darci un Amleto che compisse la sua missione con il pensiero. L’episodio e l’evento per lui erano irreali o senza senso. Egli rese l’anima la protagonista della tragedia della vita, e guardò all’azione come l’unico elemento non drammatico di un dramma. Per noi, comunque, il ΒΙΟΣ ΘΕΩΡΗΤΙΚΟΣ [1] è il vero ideale. Dall’alta torre del Pensiero noi possiamo sporgerci a guardare il mondo. Calmo, e concentrato in sé, e completo, il critico estetico contempla la vita, e nessun dardo scoccata a caso può penetrare tra le maglie della sua corazza. Per lo meno egli è salvo. Ha scoperto come si vive.

È un tal modo di vita immorale? Sì: tutte le arti sono immorali, eccetto quelle forme più basse di arte sensuale o didattica che cercano di eccitare l’azione del male o del bene. Dato che l’azione d’ogni genere appartiene alla sfera dell’etica. Lo scopo dell’arte è semplicemente quello di creare uno stato d’animo. È non pratico un tal modo di vita? Ah! non è così facile essere non pratici come immagina l’ignorante filisteo. Se fosse così sarebbe un bene per l’Inghilterra. Non v’è paese al mondo così tanto bisognose di persone non pratiche come questo nostro. Da noi, il Pensiero è degradato dalla sua costante associazione con la pratica. Chi di quelli che si agitano nello stress e nel tumulto dell’esistenza effettiva, chiassoso politico, o rissoso riformatore sociale, o povero prete di corte vedute accecato dalle sofferenze di quella parte irrilevante della comunità in mezzo alla quale egli ha tratto la sua sorte, può seriamente reclamare d’esser in grado di formulare un giudizio intellettuale disinteressato su di una cosa qualunque? Ogni professione implica un pregiudizio. La necessità di una carriera costringe ognuno a prendere un partito. Viviamo nell’epoca del lavoro eccessivo, e dell’istruzione inferiore; l’epoca in cui la gente è così industriosa da diventare del tutto stupida. E, sebbene possa sembrare duro a dirsi, non posso fare a meno di dire che gente del genere merita la sua sorte. Il metodo sicuro per non sapere niente della vita è cercare di rendersi utili.

ERNEST. Una seducente dottrina, Gilbert.

GILBERT. Non ne sono sicuro, ma almeno ha il merito minore d’esser vera. Che il desiderio di far del bene agli altri produca un gruppo nutrito di pedanti è l’ultimo dei mali di cui esso è la causa. Il pedante è un argomento di studio psicologico molto interessante, e sebbene di tutte le pose quella morale sia la più ripugnante, pure averne una è comunque qualcosa. È il formale riconoscimento dell’importanza di trattare la vita da un punto di vista definito e ragionato. Che la Simpatia Umanitaria lotti contro la natura, assicurando la sopravvivenza del fallimento, può far detestare all’uomo di scienza le sue facili virtù. L’economista politico può protestare contro di lei poiché mette l’imprevidente sullo stesso piano del previdente, rubando così alla vita il più forte, perché più sordido, incentivo all’operosità. Ma, agli occhi del pensatore, il vero danno che la simpatia emotiva fa è che essa limita la conoscenza, e allora ci ostacola nella risoluzione di ogni singolo problema sociale. Stiamo tentando attualmente di ritardare la crisi incombente, o la rivoluzione incombente, come la chiamano i miei amici fabiani, con sussidi ed elemosine. Bene, quando la rivoluzione o la crisi giungerà, saremo inermi, perché non sapremo niente. E così, Ernest, non facciamoci ingannare. L’Inghilterra non sarà mai civilizzata finché non avrà aggiunto l’Utopia ai suoi domini. V’è più d’una delle sue colonie che potrebbe avvantaggiarsi in cambio di una terra così bella. Ciò che vogliamo è un popolo non pratico che veda al di là del momento, e pensi al di là del giorno presente. Quelli che cercano di condurre il popolo possono farlo solo seguendo la folla. È attraverso la voce di uno che grida nel deserto che debbono essere preparate le vie degli dèi.

Ma forse tu pensi che nel guardare per la mera gioia di guardare, e nel contemplare per amore della contemplazione, vi sia qualcosa di egotistico. Se lo pensi, non lo dire. Ci vuole un’epoca del tutto egoista, come la nostra, per deificare il sacrificio di sé. Ci vuole un’epoca del tutto avida, come quella in cui viviamo, per porre le belle virtù intellettuali, quelle virtù superficiali ed emotive che rappresentano un beneficio pratico immediato per sé. Mancano al loro scopo anche questi filantropi e sentimentalisti d’oggi, che blaterano sempre del dovere verso il nostro prossimo. Perché lo sviluppo della razza dipende dallo sviluppo dell’individuo, e là dove la cultura personale ha cessato d’essere l’ideale, il livello intellettuale viene abbassato all’istante, e, spesso, perso del tutto. Se a cena incontri un uomo che ha speso la sua vita a istruire se stesso – una rarità oggigiorno, lo ammetto, ma che occasionalmente si può ancora incontrare – ti alzerai da tavola più ricco, e conscio che un ideale più alto ha per un momento toccato e santificato i tuoi giorni. Ma, oh!, mio caro Ernest, sedere accanto a un uomo che ha speso la sua vita cercando di istruire gli altri! Che esperienza orribile! Com’è terribile quella ignoranza che è l’inevitabile risultato della fatale abitudine a impartire opinioni! Come si mostra limitata nel suo campo la mente di tale creatura! Come ci annoia, e come deve annoiare se stesso, con le sue infinite ripetizioni e nauseanti reiterazioni! Com’è lacunosa in ogni elemento di crescita intellettuale! In quale circolo vizioso si muove sempre!

ERNEST. Parli con uno strano trasporto, Gilbert. Hai avuto recentemente questa esperienza orribile, come la definisci?

GILBERT. Pochi di noi la evitano. Si dice che il maestro di scuola non c’è più. Vorrei proprio che fosse così. Ma il tipo di cui, dopo tutto, egli è solo uno, e di certo il meno importante, dei rappresentanti, mi sembra davvero dominare le nostre vite; e proprio come il filantropo è il danno della sfera etica, così il danno della sfera intellettuale è l’uomo che è tanto occupato ad istruire gli altri, da non aver mai avuto tempo per istruire se stesso. No, Ernest, la cultura personale è il vero ideale dell’uomo. Goethe se ne accorse, e il debito immediato che abbiamo verso Goethe è più grande del debito che abbiamo verso ogni altro uomo sin dai tempi dei greci. I greci se ne accorsero, e ci hanno lasciato, come loro eredità al pensiero moderno, la concezione della vita contemplativa così come il metodo critico con cui solo quella vita può veramente realizzarsi. Fu la sola cosa che rese grande il Rinascimento, e ci ha dato l’Umanesimo. È l’unica cosa che potrebbe rendere grande anche la nostra epoca; perché la vera debolezza dell’Inghilterra non sta negli armamenti incompleti o nelle coste non fortificate, né nella povertà che striscia in vicoli senza sole, e nell’ubriachezza che bercia in orridi cortili, ma semplicemente nel fatto che i suoi idealo sono emotivi non intellettuali.

Non nego che l’ideale intellettuale sia difficile da raggiungere, ancor meno che sia, e forse sarà per anni a venire, impopolare presso la massa. È così facile per il popolo avere simpatia per la sofferenza. È così difficile per loro avere simpatia per il pensiero. Di fatti, la gente comune capisce così poco cosa sia in realtà il pensiero, da aver l’aria di credere che, quando hanno detto che una teoria è pericolosa, abbiano pronunciato la sua condanna, laddove sono solo quelle teorie ad avere un valore intellettuale. Un’idea che non è pericolosa è indegna d’esser definita un’idea.


[1] Vita contemplativa.



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