di Davide Borsani
Gli Stati Uniti non sono più la superpotenza in grado di guidare la comunità internazionale verso un mondo globalizzato ed occidentalizzato. Forse non lo erano mai stati, ma in molti lo avevano creduto, almeno fino alla crisi finanziaria del 2008. Barack Obama è stato il primo Presidente che, dopo la fine della Guerra Fredda, ha dovuto fare i conti con un’esiguità di risorse sia economiche sia psicologiche raramente così vistosa. Negli ultimi quattro anni, ancor di più rispetto all’11 settembre, gli Stati Uniti hanno infine (ri)scoperto i propri limiti.
In un contesto di grave crisi economica interna, il primo mandato di Obama è stato all’insegna del ridimensionamento strategico. Il celere ritiro dall’Iraq, che ha lasciato dietro di sé un Paese tutt’altro che pacificato, è stato seguito da un generalizzato disimpegno nel teatro euro-mediterraneo. Mentre la guerra in Libia vedeva l’America guidare gli alleati “from behind”, il Pentagono annunciava il riposizionamento della US Navy dall’Atlantico al Pacifico e il ritiro di migliaia di truppe americane dal suolo europeo. La Casa Bianca si dimostrava insomma ansiosa di sganciarsi rapidamente da teatri considerati – a torto o a ragione – ormai secondari per ridirezionare le risorse verso il “pivot Asia”. Evidentemente una diretta conseguenza delle scelte politiche e dei costi sostenuti per riequilibrare la situazione interna. L’annuncio del ritiro dall’Afghanistan entro il 2014 senza alcuna consultazione preliminare con i Paesi alleati e il raffreddamento delle relazioni con Israele in un momento – quello della Primavera Araba e del rischio di un Iran nuclearizzato – assai delicato per la regione mediorientale sono stati ulteriori sintomi di una politica estera in arretramento, volta a rompere con il recente passato.
Il discorso che Obama tenne simbolicamente in Afghanistan nel maggio 2012 davanti al contingente statunitense preannunciava una continuità tra l’orientamento del primo mandato e quello del secondo. Ad un anno di distanza dalla morte di Osama Bin Laden, il Presidente dichiarava infatti che dopo «una decade di conflitti all’estero e di crisi economica interna, è tempo di rinnovare l’America – un’America dove i nostri bambini vivano liberi dalla paura e abbiano le capacità di seguire i propri sogni». Salvo clamorosi imprevisti, sarà dunque la politica interna che continuerà ad assorbire in via prioritaria le energie del secondo Obama, il che implicherà la prosecuzione della fase di ridimensionamento. Temi popolari come la disoccupazione, il fisco ed il debito pubblico saranno nuovamente al centro degli accesi dibattiti di un Congresso polarizzato tra repubblicani anti-tasse e democratici anti-tagli; un delicato contesto politico in cui la Casa Bianca sarà ancora chiamata ad agire da mediatrice. Insomma, gli Stati Uniti – benché lontani da una postura isolazionista – sono già inclini, e lo saranno anche per i prossimi quattro anni, più a guardarsi dentro che a volgere il loro sguardo al mondo proponendosi come leader di una comunità internazionale in via di mutamento nei rapporti di forza. In fin dei conti è ciò che chiede la stessa opinione pubblica. Secondo un sondaggio riportato dall’Atlantic Council, infatti, ben l’83% degli americani ritiene che la Casa Bianca farebbe bene a privilegiare la politica interna rispetto a quella estera.
Tale direttrice trova riscontro nella composizione del nuovo team per la sicurezza nazionale. Dopo aver nominato John Kerry come successore di Hillary Clinton a Foggy Bottom, Obama ha sostituito l’uscente Leon Panetta con l’ex senatore repubblicano Chuck Hagel a capo del Pentagono; alla guida della CIA ha poi posto il proprio consigliere personale per l’anti-terrorismo, John Brennan. Il comune denominatore che unisce questi personaggi è presto evidente: l’approccio cauto e “realista” di ciascuno di loro si riflette coerentemente nel progetto di ridimensionamento del Presidente. La novità è che una tale sinergia non sempre si era verificata durante il primo mandato, in particolare tra il Dipartimento di Stato e la Casa Bianca, tra la Clinton e lo stesso Obama. Tanto Kerry quanto Hagel sono stati invece molto critici in passato delle politiche neoconservatrici dell’amministrazione Bush. Dal canto suo Brennan, convinto (come molti) dall’11 settembre che il terrorismo internazionale vada contrastato anzitutto all’estero, è stato tra i principali fautori della “drone war”, ossia dell’utilizzo di velivoli automatizzati e pilotati da terra per dar la caccia ai terroristi in sostituzione dell’approccio “boots on the ground”, il che consente – con tutti i pro e i contro del caso – di non mettere in pericolo la vita dei soldati americani e soprattutto di risparmiare parecchio denaro. Insomma, Obama con le nuove scelte si è voluto mettere al riparo tanto da una destra idealista quasi-imperialista quanto da una sinistra liberal umanitaria, entrambe convergenti verso un interventismo che dissanguerebbe un Paese già in difficoltà.
I prossimi quattro anni saranno decisivi per Washington dal punto di vista economico. Se la dimensione interna è dominata dalla politica espansionistica della Fed, quella estera è segnata da un rinnovato attivismo per il libero commercio. Mentre la centralità dei mercati asiatici si fa sempre più marcata, Obama ha deciso di volgere la sua attenzione verso Oriente. Il secondo mandato sarà infatti cruciale per il raggiungimento di un definitivo accordo multilaterale per un’area di libero scambio con molti Paesi che si affacciano sul Pacifico, a partire dal Vietnam e dalla Malesia ed allargabile a Corea del Sud e Giappone. Un’intesa di base c’è già, ma interessi protezionistici e le pressioni di alcune lobby ne complicano l’avvio. Se l’accordo sarà siglato – come sembra probabile – il potere economico degli Stati Uniti è destinato ad aumentare in un’area che attualmente rischia di essere fagocitata dall’espansione cinese. D’altro canto, con l’avvio effettivo della Trans-Pacific Partnership – come è stata battezzata – Obama sarebbe in grado anche (soprattutto?) di cogliere importanti obiettivi di politica interna: un facilitato accesso a mercati asiatici, che costituiscono oltre la metà del PIL globale e crescono ad un ritmo medio dell’8% annuo, stimolerebbe le esportazioni, creerebbe nuovi posti di lavoro e consentirebbe una più rapida crescita dell’economia nazionale. In via parallela, gli Stati Uniti stanno esplorando con l’Unione Europea la possibilità di creare una Trans-Atlantic Free Trade Area che, secondo l’Economist, sarebbe in grado di incrementare il commercio transatlantico di oltre il 50%. Se si considera che già ora le economie delle due sponde dell’Atlantico sono le più interdipendenti del pianeta, la TAFTA permetterebbe di rafforzare un legame che dal punto di vista strategico si sta indebolendo.
In conclusione, la politica estera del secondo Obama non sarà discontinua rispetto a quella del primo. Anzi, il cammino appare già tracciato. Ridimensionamento significa però lasciare spazi nel sistema-mondo che difficilmente non verranno riempiti da altri, in un modo o nell’altro. Come intuibile, ciò avrà inevitabili conseguenze sugli equilibri regionali e globali: sicuramente nel medio periodo, probabilmente nel lungo. Mentre l’ascesa della Cina – il diretto competitor – si fa sempre più ingombrante, con Pechino che reclama più potere, gli Stati Uniti vorranno proseguire nel tentativo di incanalare la potenza del Dragone in un sistema istituzionalizzato, contenendone le ambizioni ed evitando di innervosirla inutilmente. L’altra grande priorità sarà convincere l’Iran a rinunciare a dotarsi della bomba nucleare, cosa tutt’altro che semplice. Ma al di là di tali sfide, per quanto importanti, Washington resta convinta delle sue decisioni: non sarà più l’America la «nazione indispensabile» a fungere da sceriffo, seppur “riluttante”, del sistema. Quantomeno per i prossimi quattro anni.
* Davide Borsani è PhD Candidate in Storia delle Relazioni e delle Istituzioni Internazionali (Università Cattolica del Sacro Cuore)