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Outside the museums (§ 7)

Creato il 02 gennaio 2011 da Paperoga


Outside the museums (§ 7)

“Come avrebbe potuto non vederlo anche in una strada dove c’era la vita e non la morte, dove si accalcavano chi lotta e chi ha l’anima in pena e chi è come un ossesso e chi sa quello che vuole, e dove non c’era questo vuoto maligno? Ecco suo padre, quell’elegante spilungone di suo padre, perfettamente riconoscibile, il padre più bello che una ragazza avrebbe mai potuto desiderare. Attraversò la strada di corsa, questa spaventevole creatura e, come la creatura spensierata che si era divertito ad immaginare quando lui stesso era un bambino spensierato, la bambina che si dondolava sull’altalena davanti alla casa di pietra, si gettò contro il suo petto, buttandogli le braccia al collo. Da sotto il velo che portava sopra la metà inferiore del viso – che le oscurava la bocca e il mento, un velo trasparente che era il piede stracciato di una vecchia calza di nailon – disse all’uomo che aveva finito per odiare: “Papà ! Papà!”, impeccabilmente, proprio come una bambina normale, e con l’aria di una persona la cui tragedia era di non essere mai stata la figlia di nessuno.”

C’è un filo rosso che lega Pastorale americana a Non è un paese per vecchi di Mccarthy. Il filo rosso dell’impazzimento di un sogno che si incarta su se stesso, e lascia cadere nel suo ormai sbiellato dispiegarsi rivoli di follia non più arginabili. E’ il collassare del sogno collettivo di un Paese che ha proceduto senza sosta nella costruzione di infinite possibilità come se si trattasse di un meccanismo perfetto e inarrestabile e senza peso.

E quando tutto questo accade, la generazione dei padri reagisce tradendo una assoluta impreparazione, e lo sconcerto di chi non riesce a capire. Ma se nel romanzo di Mccarthy lo sguardo addolorato e incredulo dello sceriffo su quanto accade ai confini con il Messico condensa il senso della storia che si dipana nel sangue, in Pastorale Americana, però, ad una macroriflessione sull’esplosione della violenza nella società americana, dalla rivolta di Newark alla ribellione generazionale durante il pantano del Vietnam, si accompagna un dramma familiare vivo, disarmante nella sua crudeltà e insensatezza. Un padre, Seymour Levov lo Svedese, un predestinato, un uomo nella cui bellezza, successo e capacità si riassume plasticamente il sogno di un popolo, che all’improvviso si ritrova nell’orrore del peggiore fallimento possibile, il crescere con amore sovraumano una figlia che da quell’amore e da quel sogno si distacca appena adolescente, senza un’apparente ragione, per scegliere la via della violenza inaudita, dell’assassinio e del terrorismo. E’ l’inizio della fine per un uomo buono, semplice e  che da quel momento in poi non potrà che vivere chiedendosi ogni giorno in quale momento sia iniziato quell’orrore.

Quale il confine tra il rutilante successo di un uomo onesto e la violenza che gli esplode in casa? Quale il nesso tra una vita senza intoppi che fa meritatamente incetta di vittorie, e il rifiuto violento della figlia di divenire di tutto questo erede? C’è un rapporto tra il progressismo saggio e umanitario di un padre e la follia eversiva della figlia? Cosa è successo in quella famiglia perfetta, per sprigionare l’anima nera di una ragazzina vivace e intelligente, che dai genitori sembrava aver ereditato il meglio? 

In che punto, in quale momento, per quale ragione, l’anima violenta di una nazione in eruzione decide di prendere possesso di una famiglia che ne incarnava le migliori speranze? C’è un contrappasso da pagare, oppure quello che accade allo Svedese, semplicemente, è lo scatenarsi insensato del caso contro un novello Giobbe?

Romanzo meraviglioso, sconcertante, profondamente triste, su come ogni certezza, ogni sforzo, ogni valore, ogni esempio, possa senza motivo rimanere non trasmesso da una generazione all’altra, e di come all’improvviso ci si possa ritrovare la guerra e il sangue e il terrore in casa, portati non da altri che dalla propria meravigliosa bambina.

 



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