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Come certa musica cosiddetta contemporanea ma nella realtà già da mezzo secolo in circolazione, così anche l’associazione tra cultura della pace e lotta all’interruzione di gravidanza più o meno volontaria, spacciata per concetto fondamentale, ci perseguita cacofonicamente al pari.
Da un po’ di tempo a questa parte quasi ogni primo gennaio, giornata mondiale della pace, il suddetto fatale collegamento di concetti si mostra misticamente alla somma autorità cattolica di turno con la stessa virulenza con cui Carmelo Bene sosteneva di essere «apparso alla Madonna». L’eredità di Giovanni Paolo II con il suo «non può esserci pace autentica senza rispetto per la vita» dove vita, s’intenda, è curiosamente da leggersi come embrione, è stata degnamente raccolta da papa Ratzinger: il primo gennaio 2007 egli infatti dichiarò che «accanto alle vittime dei conflitti armati, del terrorismo e di svariate forme di violenza, ci sono le morti silenziose provocate dalla fame, dall’aborto, dalla sperimentazione sugli embrioni e dall’eutanasia. Come non vedere in tutto questo un attentato alla pace?».
La domanda retorica finale, concepita come calcio nello stomaco dei buoni cattolici praticanti e degna di uno dei più bei paradossi usciti dalla penna di Umberto Eco, il suo «c’è davvero bisogno di domande retoriche?», già da sola chiarisce gli intenti di chi l’ha formulata: imporre la propria Weltanschauung come è solito fare il papa tedesco è segnale di un atteggiamento non propriamente pacifico. Ma si sa, sovente chi di retorica ferisce di paradosso perisce.
Alla tentazione di associare l’aborto alla guerra non è stata esente nemmeno il premio nobel per la pace Madre Teresa di Calcutta, secondo la cui belligerante opinione «oggigiorno il più grande distruttore di pace è l’aborto, perché è una guerra diretta, una diretta uccisione, un diretto omicidio per mano della madre stessa». Come non sentirsi schiacciati da tale e tanta sicumera? Già dai toni pare di assistere ad una novella Apocalisse scoppiata come un fungo atomico tra le corsie d’ospedale, nel dramma di chi rinuncia alla propria gravidanza e si vede oltretutto mancare la minima comprensione altrui. Sopraffino in questo caso il paradosso: chi si proclama seguace di un tale che una volta disse: «non giudicate e non sarete giudicati», si prende il diritto di farlo, ossia di giudicare, esattamente nel nome di lui. A fronte di una tale sublime contorsione, mentale e sostanziale, nessun retore saprebbe fare meglio.
Invece ci soccorre ancora Benedetto XVI che, tanto per ribadire il concetto, lo scorso primo gennaio è passato dalla consueta domanda retorica, ormai evidentemente reputata superflua, al sillogismo degno del miglior Aristotele. Il papa ha infatti affermato, nell’ambito del suo discorso in occasione della giornata della pace, che la maternità è «sempre stata associata alla benedizione di Dio». Ora, sappiano i fedeli cattolici nonché, vista la risonanza mediatica dei discorsi del primate della chiesa Roma, anche i fedeli non cattolici per non parlare dei non fedeli, insomma sappia l’intero orbe terracqueo che la pace «è la somma e la sintesi di tutte le benedizioni». Dunque cosa ne consegue? Se la fecondità è benedetta e le benedizioni sono pace, persino un ragazzino saprebbe tirare, assieme all’acqua al mulino papale, anche le dovute conclusioni del caso. Ma tant’è: ogni popolo ha le figure retoriche che si merita fin dalla tenerissima infanzia. C’è soltanto da sperare, come suggerisce l’umorista siciliano Panarello, che alla famosa madre dei cretini, sempre in stato interessante, venga finalmente offerto l’aborto gratis.
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