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Quella sera era presto, troppo presto per trovare Paolo. Così Francesco decise di perdere un po’ di tempo andando in centro a piedi.
Attraversò la zona dei giardini, ormai deserta perché il buio incombente aveva scacciato la mamme, i bambini ed i vecchi che normalmente la affollavano. Lui la preferiva così. Vuota, silenziosa, con macchie di buio fitto squarciate qua e la dalla luce dei lampioni. Dalle finestre dei palazzi che si affacciavano sul verde poteva intuire il formicolio della vita intima del quartiere. Quand’era adolescente passeggiava spesso da quelle parti, proprio a quell’ora. Lo aiutava a pensare. Quanto erano distanti quei tempi! Sinceramente non li rimpiangeva. Era stato un ragazzo piuttosto solitario, ma questo non gli pesava. Di se odiava piuttosto quella grande confusione che aveva in testa, il non sapere mai come comportarsi, l’essere sempre un passo indietro, goffo e fuori luogo ovunque si trovasse. Perciò cercava un posto dove poter riflettere con calma. Gli sembrava così di poter rimettere ordine nei pensieri, di riuscire a far depositare un po’ della nebbia che gli avvolgeva costantemente il cervello.
Al di là dei giardini c’era un vecchio quartiere popolare, da cui bisognava passare per arrivare ai viali sul lungofiume. Francesco ci capitava raramente. Era tutto di palazzi, grigi condominii di quattro-cinque piani di prima della guerra, quando ancora le case si facevano con la pietra. Era solcato da un reticolo regolare di strade anonime che si intersecavano ad angolo retto.
Un tempo era abitato dalle famiglie degli operai delle grandi fabbriche che c’erano nella zona a valle della città. Gente orgogliosa del proprio stato, abituata a vivere con poco e ad usare quel po’ di benessere che si era conquistata per dare un futuro migliore ai figli. Allora il quartiere era vivace, presente nella vita della città, in special modo in alcuni momenti rimasti storici, come alcuni grandi scioperi di cui ancora si parla, a volte.
Al piano terra si aprivano le vetrine delle botteghe. Verdurai e panettieri, calzolai, rigattieri ed elettricisti, ognuno contribuiva a formare la struttura caratteristica del quartiere. Francesco, che a quel tempo non era ancora nato, se lo immaginava come una specie di organismo dotato di vita sua, in cui ogni singola parte aveva una sua funzione ben specifica.
Poi le grandi fabbriche lungo il fiume, ad una ad una, avevano chiuso e trasferito le loro produzioni in luoghi distanti. I pochi operai che erano rimasti erano troppo vecchi per potersi opporre e, uno alla volta, avevano accettato i prepensionamenti che gli erano stati magnanimamente concessi.
Così il quartiere era diventato un posto di pensionati, senza più l’orgoglio di appartenere al tronco vitale che faceva la ricchezza della città, piegati ad una difesa senza speranza di un briciolo di benessere. I giovani, i loro figli, se ne erano andati, rinunciando ad una identità per inseguire le nuove forme del lavoro.
Era stato così che, nei vuoti lasciati da chi se ne andava, si erano insediate facce nuove, diverse nel parlare e nei vestiti. Erano venuti in silenzio, dal nord dell’Africa o dal vicino oriente, prima qualche uomo, da solo, poi le loro famiglie e poi ancora i parenti e gli amici. In silenzio erano cresciuti di numero, mentre le botteghe degli artigiani, sempre in silenzio, tiravano giù definitivamente la serranda.
Adesso non era più lo stesso quartiere. I genitori di Francesco (e i loro coetanei) ne parlavano con disprezzo, come di un tessuto canceroso cresciuto al posto di un organo sano. Lui non era della stessa idea. Pur avendo la coscienza di non conoscerlo affatto, si era più o meno persuaso che la realtà fosse più complessa e che andasse affrontata senza i preconcetti di chi l’aveva visto al tempo degli operai.
Era indubbiamente diverso da allora. Ma non si poteva, secondo lui, dire che fosse peggiore senza conoscerne il carattere di ora. Senza capire i ritmi della vita che comunque in esso continuava a pulsare. Fermandosi ad elencare quello che non c’era più senza cogliere ciò che di nuovo e diverso l’aveva sostituito. Forse proprio lì dentro stavano germogliando i fiori del futuro (di tutta la città e quindi anche il nostro), senza che noi fossimo in grado di distinguerli. E potevano nascere proprio in quei gruppi di ragazzi fermi davanti ai Phone Center o ai venditori di kebab. Fra loro così diversi e perciò impenetrabili alla nostra immaginazione.
Forse fra vent’anni qualcuno di loro avrà la voglia e l’estro di raccontare il nuovo che sta ora germogliando in loro. Le sue parole, fissate nella scrittura, ci diranno della storia di questo quartiere così come la vedono oggi loro. E allora, leggendola, riusciremo finalmente a vibrare delle sue emozioni ed arriveremo a capire quello che oggi ci sfugge.
Sull’onda di questi pensieri Francesco stava quasi per sbucare sul lungofiume quando una voce da dietro lo chiamò:
“Franchino!”
Si girò con un sussulto e vide Giuliana, quella della tele, che gli veniva incontro sorridendo.
“Sei proprio tu, Franchino! Che sorpresa vederti qui!”
La guardò avvicinarsi su dei vertiginosi tacchi a spillo, fasciata in un tailleur grigio fumo. Lei intercettò il suo sguardo interrogativo.
“Dai che ti dico. Hai cinque minuti? Ma sì, vieni con me!”
Lo prese per mano e lo trascinò in una delle ultime traverse del quartiere operaio, una di quelle vie anonime che aveva appena attraversato. Con suo stupore si accorse che poco più avanti c’era l’insegna di un locale. Non lo conosceva e, ci avrebbe giurato, nemmeno Paolo ne sapeva nulla.
Giuliana invece entrò sicura, nonostante il locale fosse chiaramente ancora chiuso al pubblico. Fece un cenno di saluto a qualcuno nell’ombra e si accomodò ad uno dei tavolini appena sistemati dal cameriere. Guardava Francesco con occhi ridenti.
“Ti stupisce vedermi qui?”
Lasciò al ragazzo il tempo di assorbire la novità, approfittandone per lanciare alcuni cenni oltre il bancone. Il cameriere iniziò a preparare dei cocktail.
“Sai… faccio la pierre per loro” disse ruotando lo sguardo intorno.
“Hanno aperto da poco. Sì, lo so, sono fuori dalla zona giusta. Ma i proprietari hanno deciso così, vogliono impegnarsi in una sfida, lanciare questo posto apparentemente out, ma sufficientemente vicino al lungofiume per meritare una puntatina”
“Quando mi hanno offerto di lavorare con loro ho accettato volentieri, perché la sento anche come una sfida mia”
Si avvicinò a lui.
“Voglio fare di questo locale un posto trendy, con il giusto giro di gente. Da frequentare quando non si vuole essere sommersi, come capita là, sui viali”
Succhiò appena la sua bevanda dalla cannuccia.
“Dai! Tu e Paolo potreste fare una capatina qui, ogni tanto! Avete proprio un bel giro e mi aiutereste! Promesso?”
Francesco non sapeva cosa rispondere e si concentrò sulla sua bevanda. Più che altro era spiazzato da quella ragazza. Lei se ne accorse, perché gli chiese, cambiando discorso:
“Che te ne pare del mio vestito?”
Si fece un po’ indietro per farsi ammirare, poi scoppiò in una risata leggera.
“Ti sembra strano vedermi così? Ma no, te lo assicuro, io sono così! Laggiù alla tele non sono io, piuttosto!”
Si accostò a lui, con l’aria di chi vuole rivelare un segreto.
“Di giorno, in quel postaccio, faccio l’imbranata. Qui, di sera, posso invece essere finalmente me stessa. Due lavori, due Giuliane”
“Ma via, sforzati un attimo e vedrai che lo capisci! Mi devo difendere, cacchio! Ce l’hai presente cosa significa fare lavori interinali per una ragazza come me? Già, sei un uomo, ma penso che tu abbia abbastanza sensibilità. Basta che pensi a Riccardo, a come si creda irresistibile, quel lumacone bavoso!”
Gli occhi di Francesco si illuminarono di colpo.
“Vedi che capisci! Non è facile difendersi, per una donna. E anche molto faticoso, te lo assicuro. Molto meglio diventare amorfa, invisibile. Fare il proprio lavoro, quel che basta per portare a casa la miseria che ti danno. Nessuna interazione con l’ambiente, quindi nessun rischio. Basso investimento di energie, in modo da poterne avere a sufficienza la sera. Per tirare fuori il meglio di me. Qui mi sento viva, sento di fare qualcosa di interessante, mi metto alla prova ed ho le mie soddisfazioni, te lo assicuro!”
Francesco le sorrise.
“Bene, Franchino. Mi ha fatto piacere parlare con te. Ora devo correre. Ma ti aspetto, insieme a Paolo, mi raccomando!”
Tracannò un sorso e poi schizzò fuori, incredibilmente sicura sui suoi trampoli. Francesco salutò il cameriere e raggiunse lentamente il lungofiume.
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