E il Papa, nella sua pratica penitenziale, spesso auto sollecitata, era come se dichiarasse cancellate parti fondative di una storia complessa, piena di molteplici, anch’esse complesse, talvolta secolari, implicazioni. In sommo tripudio di fedeli, anch’essi (spesso inconsapevolmente) contriti. Al punto che sembravano capziose, come fossero pregiudizialmente anticlericali, sommesse considerazioni di chi con autorità culturale limpida (Bobbio, ma anche Derrida, con accentuazioni su talune condizioni di “imperdonabilità”): “La Chiesa chiede perdono? Ma il perdono non cancella niente.” Il male che è stato compiuto, rimane, indelebile… Non basta chiedere perdono, ad esempio, per tutto quello che è stato detto contro gli ebrei per due millenni…l’antisemitismo provocato è diventato sentimento diffuso. Non c’è risposta rigeneratrice al problema del male e della cattiva distribuzione della giustizia…Pinochet, si affaccerà col Papa e morirà nel suo letto…Anna Frank continuerà a morire in un campo di sterminio”.
E, aggiungeva Citati, mentre sembravano, nei bagni di folla, disegnarsi momenti di cattolicesimo trionfante, “probabilmente viviamo un cattolicesimo in agonia”. Per Mario Rossi, presidente dei giovani cattolici, era come se si coltivassero ancora “I giorni dell’onnipotenza”, in un permanente bisogno di Cesare. Quando invece, scriveva Alberigo, sarebbe occorsa una lunga rivisitazione della storia, come era accaduto al concilio, cogliendo i segni dei tempi, in una “chiara coscienza del fatto che evangelizzare il mondo comportava certo una conversione spirituale e morale, ma anche una trasformazione di valori personali e di mali strutturali. Perché Cesare è il potere comunque espresso, anche quello delle borghesie parassitarie e mafiose, dell’antropologia mafiosa, di tutte le mafie, come grida oggi Papa Francesco.
E sembrerebbe riapparire, anche con la futura beatificazione di Oscar Romero e adesso con quella di padre Puglisi, un possibile ripensare allo spirito del Vaticano II, che nella Gaudium et Spes, più di 50 anni fa, si riferiva alle gioie, alle speranze, alle tristezze, alle angosce degli uomini d'oggi: dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono. Queste erano pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo. La comunità ecclesiale, infatti, “è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò la comunità dei cristiani si sente (deve sentirsi, aggiungiamo) realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia. “Riappaiono così i temi di una escatologia per un modo di essere Chiesa. Anche se alle spalle abbiamo un “Concilio incompiuto”, nel migliore dei casi contemplato come fosse, “in permanente condizione aurorale”.
Certo, la tradizione cattolica è quasi completamente sprovveduta di una riflessione sulla conversione (metanoia) e questo ha lasciato irrisolti molti problemi relativi a comportamenti, tentazioni egemoniche, e soprattutto trasparenza evangelica della struttura ecclesiale ( G. Alberigo, 2000): la conversione avrebbe implicato invece altro coraggio evangelico. Siamo allora alla fenomenologia dell’“assenza di pensiero”, tracciata dalla Arendt? Il Papa, anni fa aveva parlato addirittura del silenzio di Dio. Dio che nasconde il suo volto “per tutto il male…fatto” (Deuteronomio 31:18). Ma dietro il celarsi di un volto non si nasconde l’incapacità umana di vederlo quando c’è. Nelle scritture, infatti, il “non nascondermi il tuo volto” lo troviamo come espressione di una angoscia e di una ricerca costante. E allora l’olocausto, anche il nostro in Sicilia, va letto come assenza di Dio o anche e soprattutto come assenza dell’uomo?
Quante le esperienze di cambiamento possibile, i movimenti, “Città per l’uomo”, come intuita da Lazzati, durarono solo lo spazio breve delle utopie: così la “regione delle carte in regola” , la “primavera”, che immaginavano il ri-costruire “la città a misura d’uomo”, in un primato di dimensione morale? Quanti “i nostri poveri eroi morti, per mano mafiosa, per testimoniare la volontà di rendere più gentile il nostro futuro? Ma quelle esperienze, analizzate nel quarantennale racconto di Segno, con i laici di buona volontà e credenti adulti e postconciliari, non esprimevano certo, se non in sparutissima parte, un sentire comune dei cattolici, tanto meno di quelli impegnati in politica, né di molta chiesa palermitana, sostanzialmente lontana da un costante bisogno di “non appagamento dell’esistente”.
La Chiesa, dice Salvatore Lupo, in una lunga intervista, ad un mafioso che si sente cattolico, “ben difficilmente” potrebbe rifiutargli “questa qualifica”; “il mafioso si dice cattolico perché la mafia ha un forte senso di sé e della propria storia…e appartiene al suo carattere di star ben radicata nel suo contesto socio culturale”. E poi aggiunge, guardando da storico anche molto all’indietro, “sicuramente nella Controriforma prende piede l’idea che l’adesione al rituale religioso sia più importante del conformarsi ai principi del Vangelo”. E le orme di quel piede sono ancora chiaramente visibili. Per la Chiesa la rivoluzione culturale verso nuove moderne declinazioni della cittadinanza saranno solo esercitazioni da anime inquiete. Il male, le periferie degradate, povertà, diseguaglianze, violenza, perfino miseria morale sono la storia che diviene senza il tormento di una salvezza responsabile : soltanto intrisa di generico provvidenzialismo e di una speranza che verrà, solo perché sperata. Coperta di consueti misericordismi, tutt’al più di accettazione di una ineliminabile visione pauperista. Nella riduttiva, comoda e deresponsabilizzante accezione che “i poveri li avrete sempre con voi”.
La misericordia, piena di tanta buona speranza opererà al di qua del luterano principio di responsabilità. Così lo sdegno cardinalizio per l’uccisione del presidente Mattarella postulava sì unaqualche condanna di sistema, ma preferiva soprattutto immaginare che fatto così eclatante e scellerato non potesse, non dovesse -lo sperava- attribuirsi a mano siciliana. Altre volte lamenterà lasolitudine di Sagunto, quasi che il suo difenderla non fosse obbligo di culture, comportamenti, intelaiature di società e poteri, … nostri. Prima in verità la chiusura alla comprensione era stata più accentuata; così l’“assenza di pensiero” che “banalizzava” gli eventi nella “ecclesiologia dello scontro” , come Renda battezzò la Lepanto palermitana che avrebbe dovuto salvare la civiltà cristiana, quella degli assetti di società, religiosità e poteri, consolidati in blocchi storici, di sostanziale derivazione feudale. Salvare civiltà e blocchi allora: dai comunisti, certo, ma anche quelli che usavano parole come pietre, come diceva la madre di Turiddu Carnevale a Carlo Levi: da Danilo Dolci, persino da Tomasi di Lampedusa.
La mafia come cultura di massa era solo invenzione di chi ci voleva male, funzionale alla necessità(?) di denigrarci. Semmai si trattava –diceva un autorevole vescovo al funerale di un personaggio fortemente indiziato, anche se era riuscito (chissà, forse anche per questo) ad essere parlamentare, capo corrente e quindi membro di un governo del paese- di “un deplorevole fenomeno sociale isolano”. E poi, aggiungeva il vescovo: il deputato eccellente, che stiamo onorando commossi, era soltanto un “capro espiatorio”…“un’indagine storica imparziale dovrebbe equamente ripartire (questo inopinato consenso espresso dal “deplorevole fenomeno”, n.d.a.) tra gli uomini politici di tutti i partiti, nessuno escluso”. E ancora, con linguaggio chiarissimo pur nelle contorsioni, sottolineava che non riusciva a capire, a definire, se era “ colpa o lungimiranza politica, machiavellismo o rischio calcolato” l’aver fatto “di quel mondo…con evidente beneficio del suo partito…l’altro spazio dei suffragi elettorali”. Infine, pieno di realismo, buon senso e sapiente arguzia, il nostro vescovo inanellò una perla: “…E’ ridicolo, più che ingenuo, pensare, che per fare delle buone leggi i suffragi debbano essere passati all’assurdo filtro del puritanesimo”. Sic!
La mafia, meglio “il deplorevole fenomeno sociale isolano” consentiva suffragi, benefici al partito, quindi buone leggi..allora perché tanta puzza al naso? Era come la Gladio di Cossiga, un sostanziale, generoso, apporto patriottico. Certo il vescovo era amareggiato del comportamento di “alcune frange di cattolici”, persino di “ecclesiastici” che si ostinavano a non capire, a non cogliere il significato di quei consensi. Non solo patriottico, ma, vista la concomitante difesa dei valoricristiani, anche significato religioso. E se anche per noi fosse possibile un “licet componere magnis”, perché non pensare che dietro i riferimenti a “quel mondo”, un “fenomeno isolano” (ma a questo punto ci chiediamo perché deplorevole?), un “mondo” altro, o un altro “spazio”, cose evidentemente alternative, quel buon vescovo, senza ovviamente saperlo (autorevole sì, ma acculturato sicuramente meno), dietro quei riferimenti a qualcosa di altro, ripeto, perché non pensare che si annidasse addirittura una consapevolezza di grande spessore giuridico?
Non era stato Santi Romano a porsi per primo, nel ’17, il “problema della comprensione scientifica di un sistema politico-amministrativo pluralistico?”, scrive Sabino Cassese. “L’ordinamento giuridico sicuramente unitario, ma scindibile: il diritto come organizzazione in una pluralità di istituzioni…”. Era come se il Romano riuscisse “genialmente a cogliere gli ordinamenti che sono nascosti nei fatti e nelle norme in cui la società si organizza…il concreto si ordina…”. Chi l’avrebbe mai pensato che nella cattedrale di Caltanissetta, il 7 agosto del ’76 un influente vescovo di Ragusa, nato a Montedoro, avesse immaginato un modello interpretativo della mafia di così grande spessore? La mafia non solo non agiva in odium fidei, come fidei donum, ma era sostanzialmente istituzione altra, parallela, in una visione plurale dell’ordinamento, …altra e non in odium Italiae. Chissà, se fossero ripartiti dall’omelia di Caltanissetta quanti vetero e colti sicilianisti, ad esempio i neoautonomisti, avrebbero fatto più strada…giภe allora¸ perché non pensare che di tutto questo¸ in sede difensiva¸ si potrebbero avvalere anche quelli¸ che al di là delle smentite di rito¸ oggi debbono discolparsi della c.d. trattativa stato-mafia? La mafia codificata istituzione altra, nello stesso ordinamento, in una lettura plurale...e allora la presunta trattativa non sarebbe stata eversiva¸ ma di significato opportunamente “irenico”…con meritevole voglia di riduzione del conflitto e di pacificazione.
Ma torniamo a quelle azioni in odium fidei culturalmente rifiutate dalla diffusa definizione e/o accettazione della religiosità mafiosa, addirittura, perché no? fidei donum. Quando il cardinale che era sembrato avere acquisito un grande significato antimafia nei gruppi politici cattolici, anche di derivazione sindacale, anche per far capire agli elettori che persino un grande prelato non si identificava più col vecchio andazzo, diciamo, sostanzialmente agnostico, considerò uno sgarbo la non partecipazione, per la prima volta, dei mafiosi dell’Ucciardone alla Messa del Precetto pasquale, i suoi mobilitarono i fedeli per quarantore di espiazione. Poi dissero che si era trattato di un malinteso: tutto era successo per una richiesta di migliori condizioni carcerarie alla quale il Presule non aveva dato (in verità, si precisò,…non aveva potuto dare) risposta. Questo quasi a smentire che si fosse interrotta una antica “amicizia”. Alla fine ebbe ragione Andreotti. Con sottile, perfida ironia, che suonava in realtà come ammonimento, scrisse sulla rubrica che curava sull’Europeo: Ma il cardinale non fa, non è “antimafia”? E perché allora si aspettava che i mafiosi per Pasqua gli offrissero champagne? Decriptando col senno di poi, …era come se gli avesse detto (come in altre situazioni dirà in seguito): ma Eminenza, allora che vuole? “Se l’è cercata”.
Di recente un vescovo ha commentato quell’episodio in un recente libro, scritto con altri, Grasso, Gratteri, Lo Bello etc., per Einaudi. E’ Mogavero. Un vescovo, dice la terza di copertina, che parla, che analizza, che condanna. Diciamo: che non appartiene perciò alla nostra talvolta indicata come chiesa del silenzio. Bene, Mogavero racconta quindi con eccellente credibilità di Pappalardo nel dopo Ucciardone. Scrive che al cardinale, che si sentiva essenzialmente pastore, “gli stava stretta la qualifica antimafia…si ribellò…rifiutò categoricamente di parlare, per vari anni non rilasciò più interviste…preferì tacere anziché alimentare lo stereotipo”.
Erano passati quasi 10 anni dalla vicenda Ucciardone. Le morti si erano susseguite a livelli eccellenti, in spaventosa allucinante sequenza, i funerali anche: la cattedrale, altrove, soprattutto nell’apoteosi barocca della chiesa di S.Domenico … non a caso, accanto alla Storia Patria. Nelle chiese barocche, abbiamo detto altrove, dove si mette in scena il dolore, dove, la morte è spettacolo e “suona lunghi clarini …sorretta, come nell’Andalusia di Garcia Lorca, da un duende acuto, che le dà una sua qualità di invenzione”, dove, Marcelle Padovani annota: le morts sont gentils…sont veneres…On meurt à Palerme avec beacoup plus de faste qu’ony a vècu. La magniloquenza barocca significherà anche questo. La drammatizzazione del vivere sarà cultura, qualche volta anche tragedia vera, diversa da lamentazioni usuali di prefiche e dalla distrazione di personaggi già pronti all’oblio.
Ricordo il funerale di Falcone. La vedova Schifani, icona vera del dolore, poi lo sarà per sempre nell’urlato bianco e nero di Letizia Battaglia, che grida rabbiosamente singhiozzando e disegna presenze reali di mafia, lì, tra gli stereotipati volti contriti di una folla occasionale, sicuramente nonanonima. Pappalardo non è più di scena. La Schifani è tutto: moglie, protagonista coro della tragedia recitata in un eloquente barocco. Forse parole e singhiozzi tra i più veri detti mai in una chiesa. 10 anni dopo appunto, il 15 sera del ’93, Pappalardo vegliò con me per quasi un’ora, soli, in un piccolo ospedale di via Marina Messina la salma di Padre Puglisi. Non disse una parola: il volto livido, segnato da rassegnata, sperimentata angoscia. Ricordo una carezza, appena accennata, sui miei capelli, quasi a dire: si, ci siamo presidente, è la Sicilia. Un’ora di silenzio, di notte, accanto ad un morto ammazzato, un prete, un sacerdote in quartiere a rischio altissimo, ineluttabilmente vittima, aveva in sé infiniti pensieri, parole non dette. Anche sensi di colpa. Di assoluta inadeguatezza. Non più cuore da gettare oltre l’ostacolo.
Poi il papa griderà ad Agrigento. E sarà rabbia di un Cristo che scaccia i mercanti. Gli effetti di quella rabbia, l’anno dopo nello stadio della Favorita, sembreranno attenuarsi. La Chiesa la traduce in un più composto, banale “che fare” detto da Ruini. … Che, inutilmente pensoso, si autorisponde:“dobbiamo interrogarci”. Solo questo. Ma se c’è il papa, cardinali, vescovi, sterminata folla da derby, lo spettacolo deve continuare. Certo la Chiesa si interrogherà. Intanto perché fingere di essere in una malinconia da Spoon River, dove i morti si raccontano e ti obbligano all’ascolto! E se sono i nostri poveri eroi, morti ammazzati da un potere mafioso potrebbe esserci il rischio di dover rinunciare alla tradizionale “assenza del pensiero”. Ci interrogheremo allora più in avanti, e faremo contento Ruini.
Intanto, come nelle feste barocche, i trionfi, il gran finale. La lunga sfilata degli ecclesiastici di rango in splendidi paramenti verdi disegnati da Prada, un regalo alla Curia di Palermo di un qualche Cesare. Una gradazione di verde, di rara luminosità, appena distinta dal verde omogeneo e totale del prato dello stadio. C’è una commozione alle stelle. Chi ha visto la eminentissima luccicante sfilata dei cardinali, in Roma di Fellini, ritrova la certezza che mai fiction e fashion possono competere con l’afflato di una recitazione in diretta. Ma anche altrove, dove le luci di Palermo arrivano smorzate, continueranno processi minimizzanti.
A Messina, ad esempio, dove soltanto nel fine ‘70 si comincerà parlare di mafia ma si eviterà in tutti i modi di amplificare la perniciosa attenzione multimediale: in tempi diversi, l’antimafia dirà di verminai, dalla Calabria, arriveranno analisi su contaminazioni dranghetose “orripilanti”, al policlinico goliardi si faranno uccidere, professori gambizzare…ma tutto sembra lontano, appunto sono cose lontane … da sud ovest europeo. Professori ritireranno la firma a tesi che si propongono di approfondire. Un parroco solidarizzerà con un mafioso incriminato e sarà con il paese in rivolta anti-giustizia, per esprimere, dirà dopo, preoccupazione pastorale. Aggiungerà: quel cosiddetto mafioso era cattolico, si era sposato in chiesa, frequentava…e poi proteggeva la virtù delle fanciulle, la sicurezza dei ragazzi, la “roba” degli abitanti. Come farne a meno? Era un “mafioso?” D’ordine, per giunta religioso: un parrocchiano. Sembrano sceneggiati televisivi di seconda serata. Ma non è finzione: “realtà signori, realtà, realtà” urlerebbe il padre dei sei personaggi. E le molte analisi evenemenziali non producono una complessiva lettura dei processi cumulativi di inarrestabile malessere come storia di parassitismo, meglio di saprofitismo di derivazione da cultura e prassi sostanzialmente mafiose. Ma sarebbe lungo, ci porterebbe lontano, riandare a geografie rese unitarie da complessiva capillarizzazione dei modi di produzione mafiosi.
E intanto padre Puglisi che, nella logica ricostruttrice del “dobbiamo interrogarci” di Ruini a Palermo non poteva non essere meritevole attenzione, nemmeno dell’invocazione “santo subito”. Ci sono invece voluti 20 anni. Chissà, bisognava rendersi compiutamente conto, con piedi di piombo, del fatto che la mafia lo aveva ucciso in odium fidei. E, come succede, molti si auto santificheranno con lui… anche quella tanta chiesa che non è riuscita ancora a farsi i conti con la storia. Adesso Papa Francesco sembra dire di più. Grida contro la mafia, non solo quella dei risaputi modi di produzione. Contro tutte le mafie, storicamente certo diverse, ma tutte uguali nel degrado, nella disumanità, nella violenza, nel crimine, nella sottrazione di futuro. Per il bisogno di sperimentare modelli di ri-civilizzazione, con un appello alla responsabilità di tutti, alla metanoia, con coraggio evangelico. Per “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono”.
Così Padre Puglisi si ripresenta all’attenzione di quanti non sono insensibili in una ansiosa aspirazione di fraterno ricongiungimento ad un soffio nuovo, in un’eccezionale moto di attese di disponibilità, autentiche occasioni storiche. Ciascuno, per la sua parte, e secondo suoi carismi, deve sentirsi capace di realizzare la giustizia in nome del “libro”: in suo nome, giustizia, pace e salvezza della terra. Della Sicilia. Ripartendo dal lascito di un sacerdote postconciliare, martire, oggi sugli altari, che si era mosso su questa possibile profezia.
Giuseppe Campione
E' stato professore ordinario di Geografia politica. Anche Presidente della Regione Siciliana dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. Tra gli ultimi scritti: Messina 1908 e dintorni. Horcynus e dintorni. Riflessioni sull’Autonomia siciliana. Luglio 1992. L’amaro della vita il bello della sorte. Il tempo che ci siamo dati per vivere. Andreotti, la Sicilia, la banalità del male.
There are more things in heaven and earth, Horatio,
than are dreams of in your philosophy.
W.Shakespeare
E’ un uomo minuto, esile, allegro, dall’apparenza
ingannevolmente fragile.Un sacerdote della
generazione del Concilio, predilige gli ultimi, i
diseredati…
Padre Puglisi può solo parlare. E il suo unico potere.
Non gli viene perdonato…
La mafia uccide la parola, la semplice facoltà di
parlare…ha azzerato una rivoluzione possibile..
L’ha stroncata… al modesto prezzo di un proiettile.
Bianca Stancanelli