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C'è un motivo del perché tocca ai democrat e non agli altri: quello Democratico è l'unico contenitore di idee, dinamiche e in discussione. L'entropia politica interna al Pd non è rinvenibile altrove. Che poi quelle tante idee, spesso diverse, siano state in passato anche motivo di destabilizzazione ed abbiano portato a sintesi non del tutto positive – correnti, tu chiamale se vuoi – è altro discorso.
Di connettere tre entità si diceva: sembra chiaro ormai che per riformare l'Italia, occorra riformare la politica, ma per riformare la politica è necessario che le realtà che la costituiscono - i partiti, appunto - assumano loro stessi nuova forma. È in questo che la responsabilità del Pd, diventa quasi antropologica: per vocazione, per genetica, per potenziale.
Occorre dunque che dalla costruzione congressuale, esca un partito nuovo e credibile. Più che un partito-movimento, un partito in movimento. Per dirla alla Renzi, "non un partito pesante, ma un partito pensante". Cose dette, ma bene ripeterle.
Ché è questo quello che vuole l'Italia.
Sembra paradossale: ma per costruire un tale cambiamento, che interessa un'entità comune – un bene comune – come un partito, occorre che il processo sia guidato da una persona. Da una figura rappresentativa, che diventa incarnazione del processo stesso. Altra necessità che è l'Italia stessa a richiedere: un'immagine in cui credere e a cui affidarsi. Un leader, per farla breve.
Ci sono momenti nella storia in cui i partiti trainano la società, per esempio gli anni della fase costituente, il dopoguerra o giù di lì. Ce ne sono altri in cui è la società - le persone - che traina i partiti e la politica: il '68 e gli anni a seguire. Come pure questo che abbiamo vissuto, e che forse stiamo ancora vivendo, da qualche anno a questa parte.
Adesso, invece, arriva il momento dell'inversione. La società rischia di sbandare senza riferimenti: sostituire le rappresentanze democratiche e le élite politiche con le piazze è un processo pericoloso – il Times ne parla con una bella copertina questa settimana, titolando "World's best protesters, world's worst democracy".
Adesso, serve che quelle élite politiche siano funzionanti e riescano a spostare, a partecipare, ad avvicinare, a condividere, con la gente delle piazze le proprie strategie e le proprie visioni. Tornare a guidare e smettere di essere compagni di viaggio. Al volante del meccanismo che porterà a questo difficile processo, deve – e non potrebbe essere altrimenti – esserci un leader.
Che sia Matteo Renzi, l'uomo giusto del Pd (e di tutti), a mio avviso è cosa non in discussione: unica figura in grado di interpretare questa necessità. Con l'avverbio, che da "#adesso", diventa "ancora": nel senso che ancora si è in tempo, poi, saltato anche questo giro, chissà – l'ho già detto questo, ma è una mia paura.
Il ragionamento sul chi, a questo punto potrebbe rischiare di mettere in secondo piano la questione del come e del cosa, che è quello di cui si parla fin qui. Ma così non è, ché un leader, appunto, non è solo un chi. Un leader è anche un cosa, un come, un quando, un dove e un perché.
Un leader non è un io, ma un noi.
Sarà per ragioni così grandi, che alle primarie prossime, dovrà essere permesso di partecipare alla più ampia quantità possibile di persone: a chiunque, perché chiunque sarà interessato da quel che succederà.
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