Intervista di Marino Magliani
Giovanna Cracco è cofondatrice della casa editrice Paginauno e della rivista “Paginauno”, di cui è anche vice-direttrice; è anche docente del corso di giornalismo d’inchiesta della scuola di scrittura Paginauno
- Paginauno è una nuova sigla editoriale. L’impressione che dà il nome è di una specie di: voltiamo la pagina e ricominciamo a parlare delle cose importanti che sono il narrare.
Ci può raccontare come è nato questo progetto? La figura di Walter Pozzi, docente di scrittura narrativa e di narratore per Tranchida…
Paginauno, in effetti, è una realtà editoriale che quest’anno festeggia il suo quinto compleanno. Nel 2007 è nata infatti la rivista Paginauno, che si occupa di analisi politica, culturale e sociale, e nel 2010 il progetto si è ampliato divenendo anche casa editrice. Il tutto, poi, affonda le radici in una realtà ancora precedente, quella della scuola di scrittura creativa, nata nel 2003 e che dal 2005 ha preso il nome di Paginauno. È lì che ho incontrato Walter, nel 2004.
Walter Pozzi è dunque una figura molto importante del progetto. Perché se è vero che abbiamo fondato insieme la rivista e la casa editrice, è vero anche che il suo essere scrittore e docente, la sua esperienza nel mondo editoriale e, soprattutto, il suo percorso intellettuale, il suo pensiero, sono stati fondamentali, soprattutto all’inizio, per ragionare e comprendere che cosa volevamo fare. E sono altrettanto fondamentali tuttora, in un confronto continuo che la maggior parte delle volte ci trova in sintonia, in qualche caso su posizioni differenti, ma che sempre arriva a una conclusione costruttiva. È anzi probabile che la differenza di punti di vista, in alcune situazioni, abbia arricchito il progetto.
Paginauno è, come lei dice, un nome dalla forte carica simbolica ed evocativa. Che sia la “prima pagina” di un’opera di narrativa o di un saggio di analisi, è quello spazio in cui convergono l’ispirazione, la documentazione, la riflessione, tutto il lavoro insomma che sta a monte di ogni testo, per iniziare a divenire scrittura: quel momento in cui i personaggi di un romanzo iniziano a prendere vita, o le analisi politiche e sociali, fino a quel momento magari appena abbozzate con la penna su un blocchetto di appunti, sono “costrette” a darsi un filo logico per essere comprese anche al di fuori della testa dello scrittore. Uso il termine scrittore, e non semplicemente autore, non a caso.
Nelle lunghe chiacchierate con Walter Pozzi, tra una birra e una sigaretta, ci interrogavamo sulle ragioni per cui la narrativa italiana, nella sua gran parte, fosse divenuta così “ombelicale”: avesse cioè iniziato a utilizzare uno zoom puntato sul privato, perdendo la capacità di usare come obiettivo un grandangolo che fotografasse certamente il personale e l’animo umano, ma inseriti in un contesto sociale, che è sempre, inevitabilmente, anche politico: un contesto che ha ricadute, che s’insinua, che pesa, nel privato, anche in quello di chi voglia con tutto se stesso disinteressarsi del mondo che lo circonda. Contemporaneamente notavamo come gli scrittori avessero smesso di far sentire la propria voce nella realtà sociale e politica italiana: un tempo le pagine dei grandi quotidiani ospitavano interventi di Pasolini, di Sciascia, di Moravia, di Calvino, di Montale. Scrittori che non solo non si sottraevano a un dibattito pubblico, ma che incidevano in tale dibattito, costringendo la società e la politica a fare i conti con la cultura e così elevando, a mio avviso, il livello delle argomentazioni.
È nata così l’idea del progetto Paginauno, articolato in tutte le sue componenti. Una scuola di scrittura creativa (www.scritturapaginauno.it), che nei suoi corsi “spingesse” l’aspirante scrittore a usare quel grandangolo, per continuare nella metafora cinematografica, e che negli anni ha ampliato la prospettiva con corsi di sceneggiatura e di giornalismo d’inchiesta. Una rivista bimestrale, aperta agli scrittori che volessero riappropriarsi di uno spazio sociale che la cultura ha perduto, sfidandoli, se così possiamo dire, a tornare a interpretare la società e le sue evoluzioni – e non si può dire che siano evoluzioni in positivo, e proprio per questo c’è bisogno di tornare ad analizzare la realtà con quelle chiavi di lettura che Pasolini e Sciascia possedevano e che ora gli scrittori hanno perso. In questi quattro anni di vita, hanno collaborato con la rivista, o continuano tuttora a collaborare, persone come Felice Accame, Giorgio Galli, Giorgio Boatti, Davide Pinardi, Claudio Del Bello, Marco Clementi, Paolo Pozzi, Giorgio Morale, Franco Giannantoni, Paul Dietschy, Adel Jabbar, Carlo Oliva e tanti altri. Ma la rivista è aperta anche a chi non è scrittore: basta la serietà e l’impegno, la passione verso una tematica, la volontà di approfondirla e di inserirsi in una piattaforma di discussione che si pone in alternativa alla cultura cosiddetta ufficiale. E infine, è nata anche la casa editrice (www.paginauno.it), che si inserisce nella chiave di lettura e nella linea editoriale dell’intero progetto.
Riallacciandomi alla sua impressione, quello che io e Walter Pozzi abbiamo voluto significare scegliendo il nome Paginauno, è stato in effetti un “voltiamo la pagina e ricominciamo a parlare delle cose importanti”: il narrare, certo, inteso come il riappropriarsi di una narrativa che non si estranei dalla società, che non fa dell’intrattenimento il suo principale scopo, ma rivendica una partecipazione sociale della scrittura; ma anche l’analisi saggistica, in tutte le sue componenti: la storia, l’economia, la sociologia, la politica. E con “politica”, non intendo mai partitica.
- Il manuale operativo di Davide Pinardi, Narrare. Dall’Odissea al mondo Ikea (di cui segue un estratto), è il vostro primo libro. Una specie di rotta.
Narrare è certamente un manuale operativo, ma non solo: è anche una profonda riflessione sul concetto della narrazione.
Il saggio è infatti composto da due parti, tra loro strettamente collegate ma dal diverso taglio. Nella prima, Pinardi riflette sulle narrazioni, abbattendo un muro: quello che comunemente separa le narrazioni di finzione – i romanzi, i film, tutto quello che è definito fiction – dalle narrazioni di realtà – un’analisi giornalistica, sociologica, storica, economica, una teoria scientifica, uno scenario finanziario, un progetto di marketing, lo storytelling politico…
È una riflessione importante, perché la separazione netta tra invenzione e realtà è quella che ha sempre permesso la costruzione di narrazioni sociali, storiche, politiche ed economiche, che vengono assimilate dalla maggior parte delle persone senza alcun esercizio critico; narrazioni che diventano collettive e dominanti proprio perché presentate non come narrazioni ma come descrizioni di dati oggettivi di realtà. E non solo la parola realtà porta con sé una tale forza che rende difficile la sua critica, ma il concetto di realtà oggettiva richiama quello di verità oggettiva. E quando si scomoda addirittura il concetto di verità, ci viene detto a che cosa dobbiamo credere.
Nella seconda parte del saggio, quella che si può definire un manuale operativo, Pinardi mostra quali sono le principali tecniche base del narrare: un percorso che può essere utile sia a chi voglia creare una narrazione, per poterla sviluppare al meglio, sia a chi voglia semplicemente destreggiarsi, valutare, controbattere, se necessario, le narrazioni di realtà che la società ci propone, grazie alla conoscenza dall’interno degli strumenti utilizzati per crearle.
Per questo doppio registro Narrare può, in effetti, essere inteso come una specie di rotta di tutto il progetto Paginauno. Quella rotta che va controcorrente, che spinge a sviluppare un pensiero critico basato sull’approfondimento, l’analisi, la destrutturazione del pensiero dominante, sia nel campo della narrativa che in quello della saggistica.
- La casa editrice ha esordito con un libro della collana Saggistica: è l’unica collana in progetto o ne avete anche altre?
Per il momento, abbiamo due collane: Saggistica e Narrativa. Nomi semplici, chiari, che individuano i due ambiti. E ora, a gennaio, è uscito anche il primo libro della collana Narrativa, un romanzo già pubblicato nel 2003 e che abbiamo deciso di riproporre, dandogli una seconda vita: Altri destini. Una storia degli anni Settanta, di Walter Pozzi. È un romanzo che utilizza proprio quel grandangolo di cui parlavamo prima: vicenda personale e contesto sociale e politico. È la storia di un uomo, del ritrovamento di un vecchio maglione sporco di sangue in fondo a un armadio, di ritagli di vecchi giornali che tornano tra le mani e costringono un figlio a fare i conti con la Memoria, personale e storica, e con un padre che è stato direttore di un giornale indipendente negli anni Settanta. Tra presente e passato, lo sfondo si muove tra l’edonismo, il ripiegamento nel privato tipico degli anni Novanta, e le vicende dei cosiddetti anni di piombo: le stragi di Stato, la lotta armata, le manifestazioni, gli scontri con le forze dell’ordine, la repressione politica e giudiziaria culminata nel processo 7 aprile. Sono anni con cui l’Italia non ha ancora fatto bene i conti. È sufficiente vedere che cosa hanno smosso le manifestazioni degli studenti a Roma contro la riforma Gelmini: basta un minimo risveglio di conflitto sociale e si torna subito a sentir parlare di “cattivi maestri”.
Per il futuro, abbiamo in programma la pubblicazione di alcuni autori stranieri, molto importanti nei loro Paesi e non ancora conosciuti o poco conosciuti in Italia, e certamente ancora autori italiani. Pochi titoli l’anno, quattro o cinque, tra narrativa e saggistica, per poterli seguire bene nel tempo e per non farci fagocitare e poi espellere da una realtà dominata dall’industria editoriale, che produce libri come fossero merendine a breve scadenza…
- La rivista Paginauno, accanto alla parte dedicata all’analisi politica e sociale, ha anche pagine riservate a importanti recensioni letterarie che vi fanno assomigliare un po’ a Stilos.
Senza nulla voler togliere a Stilos, la rivista che avevamo in mente al momento della creazione di Paginauno, e che abbiamo anche oggi sempre presente come modello, se così vogliamo dire – e privi di alcuna pretesa di eguagliarla! – è stata Tempi Moderni di Sartre. Il concetto dello scrittore engagé, impegnato, ben presente nella sua epoca e nel suo tempo e che prende posizione rispetto a quanto accade intorno a lui. Il rifiuto dell’Arte per l’Arte, perché, come scriveva Sartre nell’editoriale di apertura del primo numero di Tempi Moderni, il silenzio è un’approvazione. Se lo scrittore si rifugia nell’arte pura, che oggi può essere individuata anche in quella narrativa che prima ho definito ombelicale – per quanto ben poca possa essere definita arte – se si estranea dalla società e resta muto, non è affatto vero che non prende posizione: contribuisce a mantenere inalterato lo status quo. Al pari di quei romanzi gialli stabilizzanti e consolatori che puntuali, nel finale, consegnano alla legge l’assassino, facendo trionfare la giustizia; romanzi lontani ere geologiche da un’opera come Todo modo di Sciascia, per esempio, in cui alla fine non vi è colpevole perché tutti sono colpevoli, nelle dinamiche di un sistema di potere tenuto in piedi dal ricatto reciproco.
Questa linea editoriale si riflette anche nelle pagine della rivista dedicate alla letteratura. I racconti da pubblicare, i romanzi e i saggi da recensire, vengono scelti tenendo bene a mente l’idea che la narrativa debba incidere sul tessuto culturale del Paese. La casa editrice, il nome dell’autore, la risonanza mediatica che può avere il libro, i premi che può aver vinto, non hanno alcuna importanza; non incidono nella scelta di recensirlo.
- La rivista offre anche la possibilità di essere acquistata come pdf, che mi pare molto intelligente.
Mi sento di dire che, oggi, una rivista non può fare a meno di una versione in PDF. La rete sta assumendo sempre più importanza, e da un certo punto di vista, per fortuna. La realtà italiana è dominata da pochi grandi gruppi, sia nel campo dell’informazione che in quello editoriale. La prima è in mano a imprenditori – non esistono editori puri, i principali quotidiani nazionali appartengono a persone o aziende che hanno interessi in altri settori economici e/o politici; è dunque facile immaginare il livello di libertà e indipendenza di cui può godere la redazione nella scelta delle notizie da diffondere e della linea editoriale politica – e il secondo è un’oligarchia, che controlla ogni singolo passaggio che un libro o una rivista devono superare per arrivare al lettore: distributore, promotore, libreria.
La rete salta tutto questo, e non è poco. Nel campo dell’informazione, dà la possibilità di leggere qualcosa di diverso, analisi alternative a quelle proposte dalla stampa ufficiale o anche semplicemente la stampa estera. Permette insomma di allargare gli orizzonti oltre l’edicola sottocasa. E la stessa cosa vale per il campo dell’editoria. Per quanto la visibilità di un sito non sia un automatismo, ma passi attraverso complicati meccanismi, parole chiave, motori di ricerca, esistere in rete dà comunque molte più probabilità di essere visibili. Il PDF, è il passo immediatamente successivo. Sfruttare la rete non solo come una vetrina in più, oltre alla libreria, ma anche come uno strumento rapido, immediato, un click e via, la rivista è già nel computer del lettore.
Personalmente fatico a leggere a video con attenzione e non so rinunciare alla carta, al suo fascino e alla sua materialità, alla sensazione che mi dà di poter durare nel tempo. Probabilmente un giorno esisterà un archivio nazionale delle pubblicazioni elettronico, al posto di quello cartaceo che c’è oggi, a Roma e Firenze. Ma confesso che l’idea non mi entusiasma. E poi, sale di biblioteche piene di monitor e prive di scaffali? A volte immagino un black-out generale, e mi vedo con un libro in mano e una candela. Ma senza il libro, a che serve la candela?
Ma a parte i miei incubi, la rete è un incredibile medium e va sfruttata. E quindi non solo il PDF: il sito della rivista (www.rivistapaginauno.it) è tenuto costantemente aggiornato con gli articoli dei numeri precedenti, leggibili gratuitamente, e il Creative Commons, la licenza sui diritti d’autore con cui è pubblicata l’intera rivista, anche nel formato cartaceo, ha nel web lo strumento ideale di diffusione.
- Quindi la rivista è pubblicata sotto diritti Creative Commons: come mai questa scelta?
È stata una scelta immediatamente conseguente alla linea editoriale. L’idea che la cultura, la letteratura, debbano tornare a pesare nella società, significa che devono essere liberamente fruibili da tutti. Un articolo deve poter circolare, in un copia-incolla, pubblicato in un altro sito o in una pubblicazione cartacea, ripreso, citato e perché no, anche messo in discussione. Così è più facile che si crei quella piattaforma aperta al confronto e alla riflessione. Le uniche condizioni di utilizzo del Creative Commos sono quelle di riportare la fonte e l’autore, non tagliare o manipolare il testo, e non venderlo: non trarre cioè profitti, da un diritto d’autore che non pretende, al contrario, alcun profitto. Mi sembra equo. E giusto.
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Estratto dal saggio Narrare. Dall’Odissea al mondo Ikea di Davide Pinardi, Paginauno editore
“Negli ultimi decenni la quantità di narrazioni sociali si è moltiplicata in modo esponenziale e ogni ambito della vita sociale viene “colonizzato” da specialisti del raccontare. Ora siamo quotidianamente travolti dall’inflazione spettacolare del contemporaneo, dal flusso incessante dell’immediato. Un’offerta continua e ben pianificata di narrazioni per ogni livello di fruizione ormai ci circonda e ci avvolge, ci trascina ogni giorno come una corrente impetuosa, e spesso perdiamo la bussola, rischiando di convincerci che in questa massa confusa tutte le storie siano uguali, tutte autentiche, tutte dello stesso impalpabile valore e peso: tendiamo così a illuderci di poterle controllare con facilità perché non di rado simulano di essere oggettive, neutrali, innocue. Per questo, più o meno inconsapevolmente, ci ritroviamo ancor più esposti rispetto agli arbìtri del Potere che, quando lo decide, sceglie al posto nostro e senza togliersi la maschera, quali siano le narrazioni importanti e quali trascurabili: e così finiamo in una “spirale del silenzio” – come delineata da Elisabeth Noelle-Neumann – che ci isola e ci ammutolisce.
Grandi imprese multinazionali vivono producendo intenzionalmente non più prodotti o strategie di brand ma narrazioni, mondi nei quali i consumatori possono ambientare e vivere proprie “storie” alternative; la politica è diventata quasi ovunque una pratica sistematica e pianificata di costruzione, attraverso mitologie e simbologie, di controrealtà immaginarie, di universi virtuali nei quali gli elettori scelgono gli eroi e gli antieroi da idolatrare o da odiare, per i quali commuoversi o indignarsi; l’infotainment mescola senza criterio drammatiche particelle di cronaca strumentali ad attivare emozioni con leggerezze e amenità da show business; internet costruisce continuamente effimere illusioni di narrazioni universali e democratiche, in apparenza generate da spontanei flussi di massa, che rapidamente si rivelano condizionate da interessi forti, plagiate da convenienze di parte.
È la logica dominante della società dello spettacolo che permea la vita quotidiana ottundendone l’asprezza, che spinge ad agire soltanto per emozioni, che indebolisce la resistenza del dubbio, che mira a sedurre con immaginifiche promesse di mirabili vantaggi futuri per condizionare desideri, abitudini, saperi. E poiché le narrazioni si diffondono spesso come virus contagiosi, i Poteri attraverso di esse sempre più cercano di costruire solide gabbie narrative nelle quali inglobare e addomesticare ogni reale opposizione: gabbie sulle cui pareti di cristallo vengono proiettate storie di paure e di illusioni, di inganni e di chimere, per distrarre dalle concrete condizioni dell’esistenza giorno dopo giorno…
Dobbiamo riprendere a studiare le narrazioni dall’interno per capire come orientarci. Dobbiamo ritrovare parametri di merito e di qualità per valutarle, giudicarle e controbatterle. Per questo analizzare le molteplici problematiche del narrare è importante come narratori e come fruitori di narrazioni. Per scrivere meglio e con coscienza un romanzo o un saggio, ma anche per realizzare più seriamente e con più competenza uno scenario economico o un’ipotesi investigativa, un progetto urbanistico o un oggetto di design, una campagna politica o un sito internet. Per costruire narrazioni efficaci e autentiche ma anche per difenderci da quelle false che spesso appaiono dominanti, per replicare alle menzogne quale che sia il modo suadente con cui sono state messe in scena.”