Qualcuno spari a Chuck Palahniuk. Una pallottola nel cuore farebbe finalmente sì che un bravo scrittore entri di prepotenza nell’empireo della letteratura moderna. D’altronde, questa “soluzione finale” sembra l’unica percorribile per fermare l’inarrestabile involuzione dello scrittore di Portland. Nemmeno la disaffezione crescente di pubblico e critica, giunta ormai a livelli preoccupanti, riesce a far desistere Palahniuk dal regalarci l’annuale strenna letteraria. In “Senza veli”, edito recentemente dalla Piccola Biblioteca Oscar Mondadori e tradotto da Matteo Colombo, già da una lettura superficiale della sinossi è evidente che l’autore di “Fight Club” non sembra aver nulla di particolare da dire e, cosa pericolosa per uno scrittore che basa quasi tutto sullo stile, a fine lettura bisogna dire che quel nulla lo spiega pure male. Come ha raccontato lo stesso autore, l’idea per “Senza veli” è arrivata mentre si trovava sul set del film tratto del suo “Soffocare” (ondulante ma fedele trasposizione che consiglio di recuperare): «Stavo parlando con Sam Rockwell, che mi stava raccontando del film su Jesse James che stava girando con Brad Pitt – ha spiegato – a un certo punto si blocca e dice “Ascoltami. Bla bla bla. Brad Pitt bla bla bla”. Mi è sembrato che avesse una strana forma di sindrome di Tourette che gli faceva dire nomi a caso. E poi un’ora dopo ero in taxi con un tizio che lavora nell’editoria e mi racconta di quante biografie avevano in stand-by… quando una celebrità muore, ci aggiungono un capitolo finale in modo che i libri possano arrivare nei negozi entro una settimana dalla morte. Questo sciacallaggio culturale mi ha parecchio affascinato». Il tema era fresco come un pesce morto da una settimana. Il meta-cinema è un filone nobile che nelle sue vette apicali ha saputo fare un’autocritica spietata. Palahniuk sceglie di dire la sua su un argomento logoro, e lo fa con una specie di timidezza mai riscontratagli prima. Il taglio narrativo si rivela da subito scontato e ancora più insopportabile per un suo accanito lettore. Il triangolo Katherine-Hazie-Webster ricalca con meno efficacia quello dei protagonisti del suo secondo libro, il sottovalutato “Invisible Monsters”. Ma se lì Palahniuk si sbizzariva nel tratteggiare l’eccessiva Brandy Alexander, qui lo scrittore mette la museruola alla sua penna. “Senza veli” è infatti un cane che abbaia ma non morde. Non c’è critica consumistica al dorato mondo del cinema che, seppur banale, avrebbe colorato di più la vicenda.
Non c’è la ferocia disperata dei suoi migliori libri che lasciava i lettori contusi ma felici, come avveniva per i partecipanti al “Fight Club”. Ci sono pochissime invenzioni narrative in 180 pagine di noia che acuiscono la sensazione che “Senza veli” sarebbe stato migliore come racconto che come romanzo. Palahniuk da alcuni anni sembra afflitto dalla sindrome del mediocre scrittore: ogni qualvolta ha uno spunto autoriale, lo declina prontamente in un romanzo come se avesse paura di smarrirlo. Anche se laureato in giornalismo (all’Università dell’Oregon nel 1986) sembra non aver fatto propria la principale lezione della stampa: la selezione delle notizie. Nel caso della letteratura, mutatis mutandis, si potrebbe far riferimento a una cernita di idee che nell’ultima produzione dell’autore è assente. Ritornando concretamente sul romanzo, lo stillicidio di nomi della vecchia Hollywood, trascritti in neretto come nei giornali scandalistici, sarebbe stata una buona trovata nella sua brevità; ma, diluita nelle forme di un romanzo, risulta tutt’al più uno stucchevole sfoggio di cultura cinematografica, oltre che un rallentamento borioso del ritmo. Risulta priva di sorprese e anche di simpatia, la megalomane Lillian Hellmann, personaggio realmente esistito, autrice teatrale e moglie del giallista Dashiell Hammett. Le ripetute esagerazioni delle imprese della Hellmann e le stilnovistiche descrizioni dei mirabolanti rapporti sessuali tra Webster e Katherine fungono da facili paraventi stilistici per nascondere l’esilità di una trama talmente esigua da rasentare il dilettantismo. Il colpo di scena finale è così prevedibile che non telefona nemmeno, fa uno squillo. Avesse fatto a meno della solita struttura thriller, Palahniuk avrebbe potuto migliorare alcuni aspetti marginali. La felice invenzione dei was-band (intraducibile gioco di parole per indicare gli ex-mariti della protagonista, che saggiamente viene lasciato così) poteva essere ampliata, senza limitarsi alla gradevolezza linguistica. Palahniuk impiega peraltro ben 80 pagine prima di ricordarsi della sua proverbiale cattiveria, quando descrive con l’abrasività che gli è congeniale “l’audizione” dei neonati che Katherine Kenton compie per scegliere un marmocchio il cui colore della pelle si adatti alla tonalità di vernice della casa. Ma è purtroppo un momento isolato in mezzo a molta sciatteria. Viene allora anche voglia di rimpiangere l’onanistico esercizio di stile che era “Gang Bang” e l’altrettanto compiaciuto sperimentalismo di “Pigmeo”. È da poco uscito nelle librerie il suo nuovo lavoro… che sia “Dannazione” a poterlo salvare dalla dannazione letteraria in cui si è cacciato?