Sto andando a vedere case, e non si tratta esattamente della cosa che più mi diverte. Devi scandagliare siti, giornali, cartelli stradali. Devi fare telefonate inquisitorie per scoprire se ci sono dettagli abilmente occultati nell’annuncio, tipo l’assenza di ascensore al settimo piano, la mancanza di sanitari, eventuali stanze cieche, ipoteche gravanti, omicidi consumatisi recentemente nel condominio, presenza di ectoplasmi.
Inizialmente facevo telefonate cordiali (Sì certo, conosco la zona, ci viveva il mio prozio buonanima, in effetti cercavo qualcosa d’epoca ma possibilmente non troppo da ristrutturare, ma certo la graniglia non ha niente da invidiare al marmo) ma nel giro di qualche settimana il tono è diventato secco e la conversazione langue. Ad esempio, prima chiedevo “Ci sono dettagli sull’appartamento che vuole anticiparmi e che magari non erano inclusi nell’annuncio?” mentre adesso chiedo “Forza, mi dica cos’ha che non va, che costa troppo poco”.
E allora vengono fuori i primi altarini. “La seconda stanza da letto ha dimensioni ridotte, diciamo. Lei vuole sapere se ci sta un bambino? Finché è piccolo sì, direi. Ma in fondo, signora, i figli arrivano se dio lo vuole (???????)“. ”Ecco, in verità non ha balconi, ma solo finestre. Grandissime, però. Gli infissi sono da sostituire ma che vuole, signora, mentre si ristruttura uno rifà tutto tanto i soldi sono tuoi, no?”. “Ah mi ero dimenticata di dirle che è una nuda proprietà. Ma l’attuale usufruttuaria ha 95 anni quindi praticamente ci siamo“.
Se e solo se non sono riuscita a farmi confessare nulla di gravemente impediente al telefono, fisso un appuntamento per il sabato mattina, l’unico momento in cui io e voi-sapete-chi possiamo esserci entrambi. Ormai sono una professionista e ci attestiamo sulle 8 visite in 4 ore, il che, moltiplicato per 3 settimane, fa 24 case (Paola Marella chiiii?) di cui almeno la metà condito da conversazioni surreali.
Come vede qui c’è un controsoffitto (un pezzo di rivestimento contestualmente si stacca e cade nel collo del mio cappotto buono), che si può tranquillamente rimuovere per guadagnare altezza e riportare in luce i soffitti a volta. E se siamo fortunati magari son già bell’e che dipinti! (dall’uomo di Cro-magnon direi, vista l’età del condominio)
Mi chiede come mai non ci sono i termosifoni? Perché la casa non ha impianto di riscaldamento. Per questo sull’annuncio c’era scritto autonomo: se qualcuno si prenderà la briga di crearlo, si tratterà di un impianto autonomo. Mi chiede se l’appartamento è vuoto perché i proprietari sono morti assiderati? Ma no, si scaldavano con quella (indica una minuscola stufa a legna collocata nel mezzo del corridoio, tipo altarino votivo, e che gli inquilini usavano per scaldare 140 metri quadrati nell’inverno torinese).
“Mi chiede se è buia? Ma no, dai. Diciamo che non è particolarmente luminosa, ma che vuole, è un primo piano. Per guadagnare luce potrebbe unire due stanze buttando giù un muro portante e inserendo una putrella. Ne fanno di carine, anche a vista.” (Questa è la mia favorita: insieme a “mocetta”, “putrella” è la parola al mondo che mi fa più ridere e quindi cerco di fargliela dire di proposito.)
Per ora, tanti ruderi e nessun risultato. Anzi, no, qualche cosa di positivo c’è: mi sono resa conto che ormai siamo sinergici e rodati. Una coppia squadra caratterizzata da un’equa distribuzione di lavoro e responsabilità.
Alla sottoscritta, spetta fissare gli appuntamenti. Fare toc-toc sulle pareti per capire se sono portanti o meno, verificare se per caso incidentalmente sotto la moquette c’è un parquet di legno massello, stimare il tasso di marcescenza degli infissi, raccogliere e archiviare le planimetrie: sono compiti miei. Sorridere all’agente -nonostante mi si chiami insistentemente e ripetutamente “signora”- tocca a me.
Lui invece deve chiedere se si può mettere il motorino in cortile, e fingere di segnarselo su una Moleskine.
ma vai a cagare, va’