Pubblicato da Giovanni Nuscis su novembre 11, 2011
Due parole su Paolo Messina
Di più non le avrebbe gradite.
Domenica è mancato il poeta, drammaturgo, saggista, uomo di cultura ad amplissimo raggio, Paolo Messina. Non me l’aspettavo, non ce l’aspettiamo mai dai grandi personaggi, li si vorrebbe eterni, ma non è così che funziona.
Non era malato, se non di quella immensa malinconia che era impastata col suo essere, tuttavia, non c’è più ed io ne sentirò la mancanza.
Persona non facile, sincero fino all’osso, talvolta scontroso, forse anche duro, ma talmente grande che il tempo trascorso ad ascoltarlo, sembrava sempre poco.
Ti strabiliava con la sua cultura, mai esibita, ti destabilizzava con quell’amarezza che traspariva, malgrado il suo “aplomb” da gentiluomo d’altri tempi, da frasi, parole, accenti.
Non farò un “coccodrillo”, non amo questo genere di omaggi e, sono certa che lui ne riderebbe, parlerò dell’uomo, con cui ho tante volte conversato, della sua grandezza, non abbastanza riconosciuta nella sua terra, ma accreditata altrove, persino all’estero. I suoi lavori teatrali, in specie “Il muro del silenzio” e “Le ricamatrici”, sono state ampiamente rappresentate in tutto il mondo, altre quattro ne ha scritte, fino al 1985, poi si è occupato solo dei suoi studi.
In poesia e parlo di poesia in dialetto, è stato un grande innovatore, sfondando il muro delle ovvietà e delle insulse cantilene che avevano impantanato (e, ahimè, ancora impantanano, cosa che lo faceva imbufalire), l’espressione poetica in siciliano. Non voglio infilarmi in un’indagine sul come, perché, con chi, Messina ha mosso i suoi passi nella direzione in cui li ha diretti e che non mutò mai per tutta la vita, questo, mi auguro che ci saranno altri a farlo.
Io voglio andare al di là di notizie che, con metodo e buona volontà, si possono trovare abbastanza facilmente, e mi richiamo, nella fattispecie, ad un attento saggio che il poeta e sicilianista Marco Scalabrino, ad esempio, gli ha dedicato, non molto tempo fa, desidero, piuttosto, esprimere quanto mi abbia gratificato l’apprezzamento che ha sempre mostrato per i miei scritti e le parole lusinghiere che non mi ha mai fatto mancare, lui, il “babau” di tanti e tanti, i libri che mi ha mandato e dedicato e che io tengo infinitamente, cari.
Era un momento di gioia pura quando, ogni tanto, a sera, squillava il telefono e, al mio “Pronto?” m’arrivava l’inconfondibile voce, con quella particolare cadenza che, poco o nulla, aveva di palermitano. Allora, si parlava di tutto, ma, soprattutto, ascoltavo.
Parlava di sé, della guerra, di quell’esperienza terribile, vissuta in un modo che ricordava il famoso film “Mediterraneo”, degli insulti e critiche feroci che provocò la sua visione della poesia, quasi fosse un iconoclasta, pochissimo del suo privato, solo della moglie tanto amata, di cui si occupava con abnegazione ammirevole, dei soggiorni in Francia (parlava un francese perfetto, oltre al tedesco), della vita di ogni giorno, la sua, la mia.
Non potrò farlo più, ma ciò che ha scritto continuerà a parlare, nei decenni e secoli a venire, ciò che mi ha detto, resterà nel mio cuore, finché avrò vita e mente per ricordare.
Parole semplici, quelle che usiamo per chi ci è veramente caro, così desidero omaggiare un grande e con questa sua poesia, che lui non ha tradotto e che mi permetto di tradurre io, scusandomi se non avrò saputo renderla al meglio, ma l’ho fatto all’impronta.
VERSI PI LA LIBIRTA’
Ammanittati lu ventu
si criditi
ca vi scummina li capiddi
lu ventu ca trasi dintra li casi
pi cunurtari lu chiantu.
Ammanittati lu chiantu
si criditi
di cuitari lu munnu
lu chiantu ca matura ‘ntra li petti
e sdirrubba li mura
e astuta li cannili.
Ammanittati la fami
si criditi
d’addifinnirivi li garruna
ma la fami nun havi vrazza
lu chiantu nun havi affruntu
lu ventu nun sapi sbarri.
Ammanittati l’ummiri
ca di notti vannu pi li jardina
a mettiri banneri supra li petri
e chiamanu a vuci forti li matri
ca nun hannu cchiù sonnu
e vigghianu darreri li porti.
Ammanittati li morti
si criditi.
*
Ammanettate il vento
se pensate
che vi scombini i capelli
il vento che entra nelle case
per consolare il pianto.
Ammanettate il pianto
se vi illudete
di chetare il mondo
il pianto che matura nei petti
e abbatte i muri
e spegne le candele.
Ammanettate la fame
se vi sta a cuore
di proteggervi i polpacci
ma la fame non ha braccia
il pianto non conosce vergogna
il vento non tollera barriere.
Ammanettate le ombre
che di notte vanno per i giardini
a mettere bandiere sulle pietre
e chiamano con voce forte le madri
che senza più sonno
vegliano dietro le porte.
Ammanettate i morti
se ne siete capaci.
1955. Paolo Messina aveva 32 anni.