Cagliari si è svegliata presto oggi, domenica 22 settembre 2013, per salutare il Papa Francesco. L’occasione meritava questa sveglia mattutina: non capita tutti i giorni che il successore di Pietro, rappresentante di Gesù Cristo in terra, venga a visitare la nostra Isola di Sardegna, con la sua bella capitale affacciata sul mare. Tanto più che questo Papa, venuto dall’altra parte mondo, ha lanciato a noi Sardi un ponte di collegamento diretto con la sua città, Buenos Aires; e ciò grazie alla Madonna di Bonaria, Patrona della Sardegna, Madre di tutti, anche di quegli intrepidi marinai che, provenendo dalla Sardegna, sbarcarono all’altra parte del kondo per fondare la capitale dell’Argentina.
I cagliaritani sono accorsi a frotte, al richiamo del Papa.
Io sono andato ad attenderlo nel Largo Carlo Felice. Proprio lì dove circa trenta anni fa, un altro mare di folla, affluì per sentire il comizio di Enrico Berlinguer.
Sbaglieremmo a pensare che quel popolo di trenta anni fa fosse diverso da quello che oggi ha accolto il Santo Padre nella stessa piazza di Cagliari.
Oggi come allora il popolo invoca lavoro e dignità; oggi come allora la gente sarda è disgustata dalla protervia dei potenti, stremata dalle difficoltà economiche, indignata per gli abusi di una classe politica incapace ormai perfino di parlare con la gente, figuriamoci poi di saper risolvere i suoi problemi di dignità e di lavoro.
Sì, perchè di lavoro si è parlato nel largo Carlo Felice di Cagliari.
Il Papa, dopo avere ascoltato un rappresentante degli operai, la presidente della cooperativa 83 e un rappresentate del mondo agro-pastorale, ha parlato al popolo.
Ha puntato il suo dito sicuro, Francesco, contro gli idoli della globalizzazione. Il dio danaro che tutto e tutti stritola, nei suoi movimenti centripeti, che nella ricerca frenetica del profitto, esclude le frange più deboli e più esterne dalla ricchezza, dal reddito nazionale mondiale.
Ha mollato il discorso che qualche Solone in gonnella gli aveva preparato nelle stanze dei bottoni vaticani ed ha parlato a braccio Papa Francesco.
Si percepiva che parlava con il cuore in mano; lui, che è figlio di emigrati piemontesi in Argentina, sa cosa vuol dire la povertà, la ricerca di un lavoro, l’esclusione, l’emarginazione, il desiderio di dignità che scaturisce dal portare il pane a casa, grazie ai sacrifici di un lavoro onesto e decoroso.
E il suo dito puntato contro il sistema capitalistico, contro gli adoratori del dio quattrino, non sottendeva alcun riferimento ad un’alternativa collettivista, come sicuramente accadeva 30 anni fa con Enrico Berlinguer, quando ancora la speranza di un’alternativa socialista al capitalismo era vivo nei cuori dei Sardi e del mondo intero.
No. La speranza di cui parlava Francesco è quella eterna del Cristo.
Magari nella dimensione umana della Teologia della Liberazione, di stampo sudamericano; quella che vorrebbe la ricchezza divisa equamente tra il popolo; o forse nella versione più concreta della dottrina sociale cattolica, che alcuni suoi grandi predecessori hanno concepito come un correttivo alle distorsioni, agli inganni e alle ingiustizie del capitalismo; un sistema economico che ponga al centro di tutto l’uomo e la donna, come ha dichiarato, tra gli applausi, il vescovo di Roma.
Alle dieci poi, tutti a Bonaria, per un incontro più spirituale, culminato nella Messa, nella consacrazione eucaristica, nella preghiera alla Madre deii Sardi, che però è anche Madre di tutti noi.
Una grande e bella giornata per noi Sardi, in compagnia del Santo Padre.