In questa delicata raccolta di poesie – qui alla sua seconda uscita per i tipi di Book Editore di Massimo Scrignòli – Nina Nasilli elabora un ingegnoso apocrifo ch’è un’ideale prosecuzione del dialogo tra Marina Cvetaeva (1892-1941) e Rainer Maria Rilke (1875-1926). Nel maggio del 1926, Rilke si trova nella clinica svizzera di Val-Mont, a causa di un crollo nervoso (in realtà sono i prodromi di una leucemia che lo porterà alla morte qualche mese dopo). Nonostante il disagio che si trova a vivere, Rilke ha la possibilità di rispondere alle richieste dell’amico Pasternak e di scrivere a un’amica di questi, la Cvetaeva per l’appunto, inviandole un volume di sue liriche con dedica. La risposta è immediata e, con essa, un’incondizionata dichiarazione d’amore verso il poeta che, agli occhi dell’esule e tormentata poetessa russa, rappresenta «l’incarnazione della poesia». È l’inizio di un breve quanto struggente epistolario, pubblicato di recente in edizione italiana da Ugo Persi. I due condividono, fin da subito, una profonda avversione per ciò che nell’amore è legame, dipendenza e possesso. In tal senso, l’epigrafe che la Nasilli pone in apertura della sua silloge diviene un contrassegno delle peculiarità di questa relazione: «Che cosa voglio da te?» si domanda la Cvetaeva: «La stessa cosa che voglio dalla poesia intera e da ogni singolo verso: la verità di ogni / del dato momento. Non esiste nulla di più alto. (…) Voglio solo la parola, che per me è già cosa».
La parabola del titolo non è da intendersi come un exemplum evangelico: Nina Nasilli struttura le sue composizioni entro la forma geometrica più adeguata a rappresentare il movimento amoroso. Ogni storia d’amore ha infatti, per sua natura, un moto ascendente, costituito dall’accendersi del desiderio, dal divampare della passione che ne costituisce la chiave di volta o nodo, espressione e compimento in atto e pensiero; segue un invariabile moto discendente che si fa condivisione, memoria, epica o nostalgia, melancholia e dolorosa assenza. L’autrice si cala profondamente nel sentimento che pervade i due poeti amanti, sentiti come modelli di riferimento, e ne restituisce integro e impreziosito il senso. Nel corso della presentazione patavina del libro, nella splendida cornice del Caffè Pedrocchi, della quale ho avuto il privilegio di essere spettatore, l’autrice sottolineava come Parabola d’amore sia un’operazione mentale di un’artista che si innamora della sua idea. Siamo nel campo dell’origine e della gestazione della creazione artistica e, nel solco di questa riflessione, è evidente l’identificazione della Nasilli col suo modello, la Cvetaeva. L’opera d’arte, la poesia nella fattispecie, deve essere ab origine avvertita come necessità e desiderio e, in Parabola d’amore, tutto permane nella continua “eccitazione” del desiderio. Cvetaeva conosceva i rischi dell’amore realizzato e, nonostante la tentazione e l’occasione di un incontro sembrarono essere sul punto di concretizzarsi, i due poeti non si videro mai di persona. Rilke si sottrasse, inaccessibile a ogni relazione umana e già nel gorgo-epilogo della sua vicenda terrena. Il loro amore permarrà platonico, risolto nella tensione dell’immaginazione e differenziato nella sfera del sublime, terra promessa della creazione artistica. L’eredità immortale della virtù testimoniata dalle loro carte suggerisce che è stato l’amore a portare la poesia a queste vette:
«C’è un punto – là all’infinito – / che ci toccheremo / e le mani allora potranno parlarsi / là dove si incontrano le parallele dell’universo e piangono di vergogna i maliziosi e gli ignoranti» (p. 82).
«No, non sprecheremo questa vita piena di vita: / la carezza che non ci daremo sarà la più bella / perché viva per sempre nel suo desiderio; / quella che avremo dato sarà la più cara, / perché / senza quella / noi saremmo morti all’istante» (p. 76).
In Parabola d’amore, la dicotomia prossimità-lontananza è reiterata in continuazione; il dialogo in versi è una sorta di pièce, in cui il carattere corsivo viene attribuito a Rilke e quello tondo, che prevale, a Cvetaeva. La parola ha una sua intrinseca fisicità e, in questa accezione, le due voci ingaggiano un vero e proprio corpo a corpo:
«Hai mai visto un uomo / in ginocchio / se non per fame o per pietà? / io adesso sono in ginocchio davanti al tuo sesso / e non lo voglio / no – non lo voglio / e non lo tocco / però – sai – sono sfinito / così mi sono piegato».
«Puoi prendermi la testa tra le dita / spingerla e affondarla nelle pieghe / della pelle e trovare la mia morte / nel tuo piacere […]» (p.55).
Il corpo, per converso, è carico di spiritualità, come ha ben rilevato Silvio Ramat a proposito di Parabola d’amore, e riceve una sublimante investitura. L’apertura all’elemento visivo o descrittivo è quasi azzerata; tutto si colloca in un paesaggio mentale dove le pietre, le foglie, il monte e i boschi assumono valenze metaforiche: «però / giurami che non chiameremo – mai – le cose con il loro nome / giurami che se lo faremo sarà per brama del nome e non delle cose / giurami che non valicheremo il passo che ci renderebbe infelici / giurami che il nostro peso sarà culturale / giurami che non ci toccheremo – mai – più di così (io morirei)» (p. 43).
Come definire questo legame tra Rilke e la Cvetaeva, quest’amore che non si consuma “biblicamente”, come per i comuni mortali, domanda Maurizia Rossella alla Nasilli, se non una sorta di “finta”? L’autrice nega che sia tale e ripesca con ammirevole coerenza un concetto della stessa Cvetaeva nel quale l’intera questione viene ricondotta alla parola, ovvero che il nominare è materializzare, non è incarnare. La poesia, nel nominare la cosa, dà materia; incarnare è un’altra cosa. È la parola che trascende la finitezza della carne: «Non moriremo mai del tutto / noi che tanto abbiamo amato» (p. 83).
«Credo che questo mio libro viva nella materializzazione», conclude la poetessa e pittrice di origine rodigina, una delle voci poetiche più interessanti e raffinate dell’odierno panorama italico.