Due parole su The Artist, il film francese di Michel Hazanavicius che allo scorso Festival di Cannes venne messo in concorso all'ultimo, dopo essere stato annunciato fuori competizione in conferenza stampa, e alla fine se ne uscì con il premio al miglior attore per l'interprete Jean Dujardin. Il film è uscito lo scorso weekend nelle sale italiane e in generale l'accoglienza della stampa è stata buona (molto più di quanto non lo fosse stata a Cannes, a conferma che il tempo muta le opinioni e che di norma ai festival la gente ha molta più voglia di mettere i puntini sulle "i" di quanto poi nel mondo reale). A me il film continua a non piacere, per quanto, insomma, in fondo sia una commedi gradevole. Però mi sembra anche una presa in giro fondata su paradosso estetico: un film cioè ambientato a Hollywood, ai tempi del muto e del passaggio al sonoro, che si vorrebbe girato come gli stessi film muti di cui parla, in bianco e nero, con la macchina spesso fissa, la recitazione esagerata, la musichetta di pianoforte, i nomi evocativi degli attori e tutto il cotè di figure stilistiche e memorie spettatoriali che il muto implica. Il punto è proprio questo (e lo butto lì perché non ho il tempo di approfondire): The Artist non è un film muto, non è nemmeno girato come un film muto. The Artist è l'idea di quello che per noi, oggi, è un film muto. E dunque è una mistificazione dettata dal gusto contemporaneo per il vintage e per la nostalgia di ciò che non abbiamo mai vissuto. Siamo sempre lì, dunque, non si sfugge. The Artist non è archeologia del cinema, come forse vorrebbe essere. Quella, in fondo, quando vuole la sa fare: quando, ad esempio, mostra alcuni spezzoni dei finti film girati dal protagonista del film, la finta star hollywoodiana George Valentine, modellandoli sull'estetica del tempo, tra immagini slabbrate, tempi rapidi, movimenti impacciati, camera fissa e in piano medio. Perché, allora, girare un film muto che in realtà, di muto, ha solo l'assenza della parola, e di certo non quel bianco e nero limpido simile alle tonalità anni '40, mentre tutto il resto, dai volti degli interpreti ai tempi comici (vedi le gag con il cane), è estetica da cinema contemporaneo?
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Due parole su The Artist, il film francese di Michel Hazanavicius che allo scorso Festival di Cannes venne messo in concorso all'ultimo, dopo essere stato annunciato fuori competizione in conferenza stampa, e alla fine se ne uscì con il premio al miglior attore per l'interprete Jean Dujardin. Il film è uscito lo scorso weekend nelle sale italiane e in generale l'accoglienza della stampa è stata buona (molto più di quanto non lo fosse stata a Cannes, a conferma che il tempo muta le opinioni e che di norma ai festival la gente ha molta più voglia di mettere i puntini sulle "i" di quanto poi nel mondo reale). A me il film continua a non piacere, per quanto, insomma, in fondo sia una commedi gradevole. Però mi sembra anche una presa in giro fondata su paradosso estetico: un film cioè ambientato a Hollywood, ai tempi del muto e del passaggio al sonoro, che si vorrebbe girato come gli stessi film muti di cui parla, in bianco e nero, con la macchina spesso fissa, la recitazione esagerata, la musichetta di pianoforte, i nomi evocativi degli attori e tutto il cotè di figure stilistiche e memorie spettatoriali che il muto implica. Il punto è proprio questo (e lo butto lì perché non ho il tempo di approfondire): The Artist non è un film muto, non è nemmeno girato come un film muto. The Artist è l'idea di quello che per noi, oggi, è un film muto. E dunque è una mistificazione dettata dal gusto contemporaneo per il vintage e per la nostalgia di ciò che non abbiamo mai vissuto. Siamo sempre lì, dunque, non si sfugge. The Artist non è archeologia del cinema, come forse vorrebbe essere. Quella, in fondo, quando vuole la sa fare: quando, ad esempio, mostra alcuni spezzoni dei finti film girati dal protagonista del film, la finta star hollywoodiana George Valentine, modellandoli sull'estetica del tempo, tra immagini slabbrate, tempi rapidi, movimenti impacciati, camera fissa e in piano medio. Perché, allora, girare un film muto che in realtà, di muto, ha solo l'assenza della parola, e di certo non quel bianco e nero limpido simile alle tonalità anni '40, mentre tutto il resto, dai volti degli interpreti ai tempi comici (vedi le gag con il cane), è estetica da cinema contemporaneo?
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