Il giudizio di Marco GoiSummary:
Parenthood se n’è andato come aveva sempre vissuto: in silenzio, senza clamori. Raccontata con questi toni può suonare una cosa un pochino melodrammatica, ma in fondo dire addio alla famiglia Braverman è stato quasi come salutare una seconda famiglia. Il punto di forza di Parenthood, che poi è la chiave del successo di qualunque serie destinata a durare a lungo, è l’affezione ai personaggi. Parenthood non ha mai puntato su altro. Il suo è sempre stato un raccontare una famiglia nella maniera più normale possibile, osservare lo scorrere del tempo e mostrarci i vari protagonisti crescere davanti ai nostri occhi, in una maniera non troppo distante dalla pellicola grande favorita ai prossimi Oscar, Boyhood.
Nonostante questo tocco naturale, reso in maniera efficace anche dalle interpretazioni misurate e quasi mai sopra le righe degli attori, dall’ex mamma per amica Lauren Graham all’ex becchino per amico di Six Feet Under Peter Krause, la serie non si è certo risparmiata nell’affrontare temi a volte molto delicati. Se c’è un motivo in particolare per cui ricordare questo telefilm è per come ha raccontato la sindrome di Asperger, una particolare forma di autismo, attraverso non uno bensì due personaggi, il ragazzino Max Braverman (Max Burkholder) e poi pure Hank Rizzoli (Ray Romano), che scopre soltanto in età adulta di averci convissuto da tutta la vita. Con grande delicatezza e senza facili pietismi, attraverso il personaggio di Kristina Braverman (Monica Potter) Parenthood ha inoltre parlato di cancro nel corso della quarta stagione, forse quella emotivamente più intensa.
Adesso che il percorso dei Braverman è giunto al termine, dopo sei stagioni, quello che colpisce non è il valore delle season prese singolarmente, ma il quadro complessivo offerto. Nel corso dei sei anni la qualità della serie è rimasta sempre costante, senza finire per trasformarsi in una soap opera, né nelle trappole della ripetitività. Pur giocando sulla quotidianità della vita dei suoi protagonisti, ogni anno è riuscita a proporre nuovi temi, nuovi personaggi, nuovi problemi, nuovi dilemmi esistenziali, riuscendo a rinnovarsi mantenendosi fedele a se stessa. Il gran finale che ha scritto la parola fine dopo 103 puntate ha proseguito sulla stessa linea, senza enormi sorprese, ma senza nemmeno tentare colpi di scena improbabili o chiusure assurde come capitato di recente ad altre serie storiche. Qualcuno ha per caso menzionato Dexter o True Blood?
ATTENZIONE SPOILER
Parenthood ha chiuso i battenti in maniera classica, come fatto da tante altre serie, con un neonato, un matrimonio e un funerale. Il neonato a dirla tutta era già arrivato nella penultima puntata, con l’ultimissima new entry nel clan dei Braverman, il figlio di Amber (Mae Whitman), chiamato Zeek in onore del nonno (Craig T. Nelson). Il matrimonio è stato quello tra Sarah (Lauren Graham) ed Hank, celebrato in maniera laica e puntando non tanto sulla funzione in sé, ma sul pre e sul post cerimonia. Ancora più singolare il modo di affrontare il funerale. L’ombra della morte di nonno Zeek è stata una minaccia presente nel corso dell’intera stagione finale e quindi era qualcosa di inevitabile quanto prevedibile. Da applausi però la scelta di celebrarlo non con una funzione funebre strappalacrime, bensì con una gioiosa partita di baseball. È per questo che Parenthood ci mancherà così tanto. Non per cosa ha raccontato, ma per come l’ha raccontato. Con un tocco positivo, però non buonista. Con maniere da gentleman, eppure con la forza di un combattente capace di battersi contro tutte le avversità e le ingiustizie della vita. Una serie che non si può certo definire rivouzionaria, ma che ha sempre avuto dalla sua parte una cosa che molte più blasonate e celebrate serie si possono solo sognare: un cuore.
di Marco Goi per Oggialcinema.net
Parenthood, il toccante addio alla famiglia Braverman ultima modifica: 2015-02-04T09:27:28+00:00 da Marco Goi