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Parigi, Beirut e i prevedibili colpi di coda dello Stato Islamico

Creato il 24 novembre 2015 da Bloglobal @bloglobal_opi

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di Andrea Falconi

Il mese di novembre 2015 ha visto un notevole incremento degli episodi di violenza radicale in varie parti del mondo, in gran parte riconducibili al movimento siro-iracheno dello Stato Islamico (IS). Dal punto di vista nazionale ed europeo, l’ondata di attacchi ha avuto il proprio punto culminante negli attacchi di Parigi del 13 novembre scorso, la cui eccezionalità consisterebbe nel fatto di aver visto coinvolti obiettivi esclusivamente civili e nell’assenza di una minaccia preventivamente sostanziata, come nel caso di Charlie Hebdo. Ciò ha generato un immediato clamore mediatico e fomentato un clima di paura generalizzata, anche e soprattutto a fronte della fiducia riposta dalla popolazione francese nei propri apparati di sicurezza dopo gli eventi del gennaio 2015.

Eppure, analizzando a fondo l’andamento delle vicende mediorientali e l’evoluzione del movimento di Abu Bakr al-Baghdadi, gli attentati di Parigi s’inseriscono in un trend ben definito, che aveva assegnato ad un simile evento un carattere di alta prevedibilità. Per comprendere a fondo le ragioni di quello che, a tutti gli effetti, appare come un colpo di coda della formazione del sedicente Califfo Ibrahim (nom de guerre di al-Baghdadi), bisogna considerare al contempo le dinamiche proprie della strategia internazionale dell’IS e l’andamento dello sviluppo del teatro siriano e iracheno.

Innanzitutto, le linee guida della grande strategia dell’IS si sostanziano nella divisione del mondo in tre distinte aree di azione, difesa e propaganda.

Nei territori già soggetti al controllo dell’IS, il cosiddetto “Anello Interno” dell’Iraq occidentale e della Siria centro-orientale, il movimento opera tramite una strategia di guerra convenzionale che comprende operazioni militari strutturate, quali la difesa delle zone già sottoposte al proprio controllo, la guerra di logoramento nei fronti congelati e le incursioni nei territori nemici. Tali azioni sono mirate dunque alla difesa e all’estensione delle conquiste territoriali che, in un’ottica convenzionale, garantiscono l’esistenza stessa del ad-Dawla (lo Stato), appunto l’autoproclamato Califfato.

Accanto alla cerchia interna dell’area di operazione, esiste una seconda sfera corrispondente a tutta quella parte di mondo assoggettata al potere islamico a seguito dell’avanzata dei primi seguaci di Maometto: il Grande Maghreb e il Medio Oriente allargato. In tali Paesi, a maggioranza musulmana, lo Stato Islamico porta avanti una strategia indissolubilmente legata alla propaganda, diretta quindi al proselitismo verso le persone ivi residenti, facilmente raggiungibili attraverso i canali dei media tradizionali. Le milizie già presenti in tale zona, denominata “Estero Vicino”, possono richiedere l’affiliazione all’IS e il cambio della propria denominazione in Wilayat (Province), da cui deriva l’obbligo di anteporre alle proprie attività, locali e indipendenti, la tempestiva esecuzione delle direttive provenienti dalla casa madre.

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Nella casistica recente è possibile individuare una forte correlazione tra gli attacchi portati avanti dai Wilayat sotto la bandiera dell’IS e alcuni episodi bellici negativi per il movimento in Iraq e Siria. Ciò aiuta a rendere chiarezza sull’impiego strumentale del terrorismo nei Paesi del Maghreb e Mashreq quale elemento di contro-bilanciamento della propaganda negativa proveniente dalle sconfitte in Iraq e Siria.

Esiste infine un terzo anello, riconducibile al resto del mondo conosciuto e in particolare a tutti quei Paesi dove esistono minoranze musulmane: Nord America, Asia, Europa e Oceania. In tali zone, e soprattutto in Europa, dove per motivi geografici e storici sono presenti consistenti minoranze islamiche, l’attività dell’IS è rivolta ad esacerbare la tensione sociale tra la maggioranza dei residenti e i gruppi di fede islamica. L’interesse maggiore, in questo caso, è quello di generare un’ondata di malcontento contro le minoranze islamiche che, sovente, come nel caso delle banlieue francesi, sono già poste ai margini della società.

Gli attacchi come quelli di Parigi, in altre parole, seguono una logica che è al contempo attiva e passiva, azione diretta e propaganda, funzionale ad alimentare il proprio sostegno presso le minoranze musulmane, ad alimentarne il distacco sociale e ad ottenere da esse un ritorno in termini di partecipazione a vario livello alle attività del movimento stesso: dal più noto, ma ben più raro fenomeno dei foreign fighters allo stabilimento di connessioni online per l’invio di risorse finanziarie, la condivisione di know-how tecnologico e, soprattutto, di materiale sensibile per la propaganda online, che incrementa la percezione della minaccia ben oltre il suo livello reale.

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Foreign fighters in Siria e Iraq e Paesi di origine – Fonte: The Independent / U.S. Homeland Security Committee

A fronte di una strategia così articolata, per giungere ad una piena comprensione dei fatti di Parigi bisogna analizzare il quadro di breve e medio periodo all’interno del quale è maturata la decisione dei vertici del movimento di esporsi ad una serie di attacchi plateali, che hanno generato un immediato inasprimento delle operazioni militari a proprio danno in Iraq e Siria.

Lo stesso giorno degli attacchi di Parigi, il 13 novembre, le forze curde del YPG (Yekîneyên Parastina Gel – Unità di protezione del popolo), ala militare del PYD (Partiya Yekîtiya Demokrat – Partito d’Unione Democratica) legato al PKK, hanno concluso vittoriosamente la campagna di Sinjar, iniziata nel dicembre del 2014 e rivolta alla riconquista di vari territori nella provincia di Nineveh. La zona del Monte Sinjar, conquistato dall’IS nell’agosto del 2014 a seguito dell’arretramento delle forze curde irachene e teatro del tristemente noto massacro degli yazidi, costituisce al contempo l’avamposto sudorientale del Rojava curdo in territorio iracheno e un passaggio obbligato per il collegamento terrestre tra Mosul e Raqqah, le due capitali dell’IS rispettivamente in Iraq e Siria.

La vittoria è stata resa possibile dal sostanziale indebolimento dell’IS nei due Paesi, su cui hanno sicuramente inciso, in ordine di importanza, l’ingresso delle forze russe nel conflitto – cui ha fatto seguito la fine del tacito accordo di non aggressione tra il governo siriano e le milizie di al Baghdadi in funzione del concentramento delle proprie capacità militari contro il comune nemico del restante fronte dei ribelli –, il reintegro nella comunità internazionale dell’Iran, che ha permesso al regime di Teheran di vedere legittimati gli sforzi dei propri Pasdaran e la maggiore disponibilità di fondi da elargire alle milizie sciite alleate, e infine l’avvio dei raid aerei da parte di una vasta coalizione internazionale a guida statunitense, con l’importante partecipazione turca e francese.

Lo scenario bellico nell’autoproclamato Califfato, dunque, sembra attualmente volgere completamente a sfavore dell’IS, colpito duramente su tutti i fronti e con le proprie linee di comunicazione tagliate in due dall’avanzata curda nel Sinjar, che minaccia direttamente, tramite la porta di Tal Afar, la stessa Mosul. Giocoforza, il movimento di al-Baghdadi è stato costretto ad impiegare tutte le armi a propria disposizione con attacchi plateali, funzionali a recuperare il terreno perso e tentare di riequilibrare le sorti del conflitto, spremendo al massimo tutte le risorse a propria disposizione.

Nel secondo anello, l’attentato terroristico ai danni del volo Metrojet Flight 9268 e l’attacco di Beirut del 12 novembre scorso sono stati organizzati con lo scopo di reiterare la propaganda della propria forza in Paesi a maggioranza islamica e di colpire al contempo due entità, come la Russia ed Hezbollah, impegnate in prima linea nella lotta al Califfato.

Nel terzo anello, dunque, il bersaglio perfetto è stato individuato nella Francia, Paese impegnato nelle operazioni militari contro l’IS e nel quale è presente una forte frizione sociale a discapito delle minoranze musulmane, soprattutto a fronte della forte ascesa di un sentimento ultranazionalista xenofobo che il Front National riesce a malapena a contenere entro i ranghi della normale dialettica politica.

A fronte di una tale prevedibilità, dunque, il principale interrogativo rimane quello relativo all’incapacità da parte delle forze di sicurezza francesi di impedire gli attacchi, di certo determinata dal coinvolgimento di obiettivi non sensibili, come i bar e i ristoranti del centro di Parigi.

In tal senso, tuttavia, è utile sottolineare una sostanziale differenza tra le modalità di garanzia della sicurezza degli obiettivi nel territorio nazionale.

La difesa degli obiettivi sensibili, automaticamente rinforzata in caso di un incremento del livello della minaccia, come a seguito dell’offensiva di Sinjar, è svolta principalmente a livello passivo, con mezzi e uomini pronti a rispondere in caso di attacco. La tutela degli obiettivi non sensibili, invece, rappresenta il vero e proprio banco di prova delle capacità di un servizio segreto, che deve misurarsi con una difesa preventiva, da sostentarsi tramite l’intercettamento degli attacchi nella loro fase organizzativa.

Ciò è sfuggito attraverso le larghe maglie dell’intelligence francese, testimoniando un probabile scarso coordinamento tra l’intelligence interno del DCRI (Direction Centrale du Renseignement Intérieur), dipendente dal Ministero dell’Interno, e quello esterno del DGSE (Direction générale de la sécurité extérieure), sottoposto al Ministero della Difesa. Lo stesso DCRI, tra l’altro, sembra ancora non aver assimilato appieno la sua nascita a partire dalla fusione del 2008 tra la Direction de la Surveillance du Territoire (DST) e la Direction Centrale des Renseignements Généraux (DC-RG), che avrebbe dovuto semplificarne le procedure e la condivisione di informazioni, ma che di fatto ha dato il via ad una spaccatura interna in seno alla neonata istituzione, non formalizzata e quindi burocraticamente problematica.

Infine, l’ultima nota dolente dello scenario francese è relativa alla relativa facilità di reperimento di ogni sorta di arma, sia del tipo leggero – come gli AK-47 – sia di materiali utili alla fabbricazione di vari tipi di ordigni esplosivi, impiegabili in scenari asimmetrici. Ciò non è altro che l’esito finale di un flusso di armamenti senza controllo proveniente dal mercato nero della ex Jugoslavia verso la Francia iniziato a partire dai primi anni Novanta, che frutta all’incirca 1.000-1.200 euro di guadagno netto per ogni kalashnikov fatto entrare nel Paese. Le poche centinaia di armi sequestrate nell’ambito delle recenti maxi operazioni della polizia francese non rappresentano che la punta di un iceberg: le banlieue francesi, interdette alle forze di sicurezza – rivolta del 2005 docet – sono la santabarbara di un arsenale che comprende, secondo le stime più attendibili, circa due milioni di kalashnikov.

Gli attentati di Parigi sono stati preceduti da un campanello d’allarme, purtroppo ignorato, come gli attacchi di Beirut e nei cieli del Sinai egiziano. L’intelligence francese non ha saputo fare fronte ad una minaccia che è stata sì determinata dal mutamento di breve periodo dello scenario mediorientale, ma che, come nel traffico di armi e nella realtà delle banlieue, affonda le sue radici in uno spazio temporale comprendente diversi decenni.

La speranza maggiore, dunque, è che la lezione appresa serva a sostentare non solo la foga bellica dei raid aerei, e quindi il livello meramente tattico operativo, ma si risolva soprattutto nell’individuazione di linee guida strategiche di lungo corso e innovative chiavi di lettura, maggiormente efficaci e capaci di legare assieme la complessa realtà del macro scenario europeo, africano e mediorientale.

* Andrea Falconi è fondatore e Direttore responsabile di Politica Globale. Analista specializzato in Difesa e Terrorismo, collabora con l’IdP – Istituto di Politica di Perugia, con Il Nodo di Gordio, con Rivista Marittima – periodico ufficiale della Marina Militare italiana e con altri think tank e riviste di politica internazionale.

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