Viaggio fotografico nel cuore di Parigi, alla scoperta dell'anima del quartiere popolare delle Halles
da La Stampa 15/02/2012 ALBERTO MATTIOLI
Parigi perde il suo ventre e un po’ del suo spirito, scrisse Robert Doisneau quando la città prese una delle decisioni più sciagurate della sua storia, «la distruzione tragica», parola del sindaco attuale, Bertrand Delanoë, delle Halles e l’esilio di quel mercato otto volte centenario dal centro alla periferia.
Le Halles erano il ventre di Parigi, certo. Ma anche il suo cuore. Sempre Doisneau: «Penso all’uomo alla deriva, senza amici nella città addormentata dove i telefoni sono muti. Andava alle Halles, un po’ di fortuna, e trovava di che viverci; un altro po’ di fortuna, ed era adottato». Però Doisneau per parlare non usava le parole ma la sua Rolleiflex. Mai una città si è tanto identificata nelle fotografie come Parigi in quelle di Doisneau. Tanto che ancora adesso, quando pensiamo a Parigi, che pure è una metropoli globale, multietnica, coloratissima, la pensiamo in bianco e nero, in «quel» bianco e nero: il bianco e nero di Doisneau. Non è vero che l’arte s’ispira alla realtà: è la realtà che somiglia all’arte. E, di tutta la Parigi che fu, nessun posto come le Halles ispirò Doisneau. Lì, la sua prima foto la scattò nel 1933, a 21 anni. Titolo: «Les filles au diable», ma il demonio non c’entra, il «diable» era il carretto che veniva affittato a giornata ai facchini. Doisneau continuò ad andarci per decenni finché, alla fine degli Anni 60, i meravigliosi padiglioni costruiti da Baltard sotto Napoleone III, tutto un gotico industriale di ferro, furono abbattuti e il mercato spostato a Rungis per le solite ragioni di igiene, ordine, pulizia ed economia. Cervello batte cuore uno a zero.
Non finì un mercato, ma un mondo fatto di macellai rubizzi, prostitute un po’ sfatte, facchini enormi, fioraie civettuole, tenutari di bistrot che ne avevano viste di tutti i colori e zuppe di cipolla buttate giù all’alba. Adesso che l’orrido Forum che ne ha preso il posto fa la meritata brutta fine e verrà a sua volta demolito,
il Comune organizza all’Hôtel de Ville una mostra, «Doisneau - Paris les Halles»
aperta fino al 28 aprile e già presa d’assalto, e non solo perché l’ingresso è libero. La realtà è che i parigini che ricordano le Halles vogliono rivederle; i più giovani e i turisti, scoprirle; e tutti sono affascinati dalla poesia di questi scatti.
Era un ambiente straordinariamente pittoresco, con i suoi usi, le sue regole, perfino il suo vocabolario: il «fort» era il facchino, i «glaneurs» i poveracci che a mercato finito andavano a rovistare fra gli ortaggi scartati o la frutta mezza marcia. Su tutto, domina la passione dei francesi per il cibo, che in fin dei conti li rende così vicini a noi italiani: siamo fra i non molti popoli per cui mangiare non vuol dire solo nutrirsi.
C’è la stessa idea della spesa come rito, festa, recita. Cominciava tutto alle prime ore del giorno, quando arrivavano i camion, i disperati guadagnavano due soldi aiutando a scaricarli, il sangue degli animali sacrificati si spandeva sul selciato, chi aveva fatto la festa passava dalle Halles e quelli che non avevano niente da festeggiare, anzi niente del tutto, dormivano per terra avvolti nell’onnipresente sacco di juta. Poco più in là, in rue Saint-Denis, le prostitute aspettavano i clienti: sempre i piaceri della carne, però le donnine sono ancora lì, le Halles sono sparite.
Queste foto sono così straordinariamente toccanti perché ci si vede tutto l’amore di chi le ha scattate. E anche la sua fatica: per anni, quando capì che le Halles erano condannate, Doisneau andò a passarci una notte alla settimana. Arrivava lì alle tre e iniziava a fotografare. Si chiama passione. Diceva: «Parigi è un teatro dove si paga il proprio posto con il tempo perduto».
Le Halles sono l'argomento principale del libro Il ventre di Parigi di Émile Zola.