Pubblicato da Giovanni Nuscis su febbraio 8, 2012
Notte, è notte, è notte
pietra contro pietra,
foglio su foglio,
mattone dopo mattone,
ho spolpato la mia colpa
di essere – come dici tu –
perfettamente senza costrutto;
un talento inutile
riverso sul letto, un addio scordato,
secreto da una sagoma di carta
che esecra un duttile congedo
che chiama morte la più infantile
posa della vita.
Segreta è la lettura di questa vita apocrifa
che non tramanda la propria
verità palese, ma resta pensile
dentro una docile rete che pure
i denti non squarciano.
Sa di fame il morso delle mie parole.
*
Il disprezzo
Non è affatto calmo questo caos,
rifluisce alla sua natura di intemperie,
di disordine che non si lascia a terra,
che si porta la calce nei palmi.
Non è cinematograficamente corretta
questa inconsolabile lotta contro il petto,
senza alcun motivo musicale, amputata
di ogni colonna sonora che ti batteva
nella testa, ed ora sprofonda sorda nel ricordo.
L’hai presa da dietro la voglia di farla finita,
un’eclisse carnale che ti spegne la terra
messa a tappeto da un siderale sole notturno,
uno sparo rimbomba dentro una camera chiusa.
*
Astri
Può esserci una stanza
senza centro di gravità?
Dove per pura volontà d’altro
i mobili senza volontà ripetono
tutti i movimenti degli astri.
Puoi allora senza saperlo vedere
i divani subire la rotazione del sole,
così da sorgere lì dove c’erano i lumi,
retrocessi al nadir della loro rivoluzione.
Può essere dannata una vita senza pareti.
*
Il cibo senza nome
Questa casa non ha odore,
non dico il sugo, la frittura,
il calore, che sarebbe kitsch;
dico che non si sentono i passi
dietro i tavoli, sulle tovaglie,
sopra i divani, fuori delle stanze.
Non posso dire la differenza, come
gli inglesi, tra casa e casa, perché
camere e cucina non siano solo mattoni,
intonaco e cellofan, ma anche terra,
ventre e fame che sazia alla fine
della vita sui muri fino ad annerirli
e a farli puzzare delle nostre giornate.
E invece questa casa è una rimessa,
i cartoni, le scatole di cibo senza nome
al posto dei libri sugli scaffali dismessi,
le foto senza alcun luogo, i quadri senza
soggetto, la polvere che ti mangia tutto.
Mi resta il bagno, utile e integro, una cesta.
*
Hai mai sentito un esempio
che non fosse banale?
Perché tutti credono ai luoghi comuni:
il bene degli altri, i valori nella fossa,
il non provare risentimento,
i pensieri scevri da pregiudizi,
il bi e il ba che nessuno ricorda più.
La nostra vita non è stata banale
perché non abbiamo perso tempo,
ci siamo buttati, abbiamo ballato,
ci siamo svestiti come fachiri sulle piante dei dolori.
Siamo rimasti a zero, senza benzina,
fuori campo, siamo arrivati lo stesso.
La nostra vita non è stata banale
-a parte il dirlo. Perché non è un esempio.
*
Ti saluto da un posto
che non ho mai visto
perché la terra non gira più,
resta affissa alla testa del letto
più pietosa di un’icona sacra.
Tutto gli gira intorno ubriaca
nella sua perfezione scientifica
mentre in fondo dialoga ancora
con un tolemaico sole danzante.
S’è svuotata nella testa la palla
non più tonda della sapienza,
si pianta sgonfia su questa terra,
inabile a rimbalzare in alto.
*
Ad un passo
Mi sono fermato ad un passo
dalla santità grazie al peccato,
l’unico che ho ingoiato, è stato
l’acqua sul fuoco, la legna bagnata,
il fumo nero della mancata elezione.
Insopportabile a credersi che
si potesse fare quello che
si dice per crescere sani,
parola dopo parola,
dalla bocca alle unghie.
E invece no, dovevo fermarmi prima,
per poter essere come tutti gli altri,
mezz’ora di ritardo, senza parola data,
eppure accettabile perché così comune.
Questo resta comunque, a fare la differenza,
che proprio ad un passo mi sono fermato.
*
Pasquale VITAGLIANO
CIBO SENZA NOME
LIETOCOLLE, 2011
Prefazione di Paolo Ruffilli
Nota di Francesco Forlani
*
Di quali nutrimenti siamo o dovremmo essere fatti, o privati, se la vita è un suggere continuo e onnivoro? Un atto fisiologico, ma non solo. Siamo fatti e disfatti da ciò che mangiamo, in un habitat che tutto include, e che, nutrito, nutre: bene, male, pessimamente. Il vuoto, il dolore, l’urlo, il lamento sono segnali dell’assenza, dell’eccesso, dell’errato nutrimento. Disarmonie, queste, che il poeta coglie e metabolizza nei suoi versi. Disarmonie la cui conoscenza implica, probabilmente, anche quella dell’esatto contrario, l’aspirazione a esso in una qualche misura. E’ così che il cibo senza nome nutre la poesia, in un viaggio verso le origini e la ragion d’essere delle cose.
Il poeta viaggia dunque in una notte metaforica; un viaggio a pelo d’acqua come un battello su un fiume, che si ferma ogni tanto, scruta l’orizzonte intorno o scandaglia il fondo, repertando bellezze e insidie. Un viaggio nel profondo dell’anima dove il poeta, “pietra contro pietra/mattone dopo mattone” può spolparsi in rinfacciate colpe. Un viaggio nel caos “affatto calmo”, prendendo atto di una umanità ritrattasi da tempo dal sogno, omologata e relegata in paesaggi urbani e in microcosmi domestici sempre più asettici, incolori, inodori:” i cartoni, le scatole di cibo senza nome/al posto dei libri sugli scaffali dismessi,/le foto senza alcun luogo, i quadri senza/soggetto, la polvere che ti mangia tutto.”
I versi soppesati di questa bella raccolta di Pasquale Vitagliano esprimono un sentimento persuasivo e condivisibile di questi anni caotici e di difficile lettura, spesso disperanti. Una poesia, scrive Francesco Forlani sulla sua nota, “che rivela dal primo verso la complessità della sua composizione quando definisce da subito l’istante – il tempo attraverso la sua relazione allo spazio – se io dico qui (hic) è per forza ora (nunc)”. La prospettiva sembra a volte lunare, l’atmosfera, hopperianamente sospesa (“Può esserci una stanza/senza centro di gravità?/Dove per pura volontà d’altro/i mobili senza volontà ripetono/tutti i movimenti degli astri.”; “Ti saluto da un posto/che non ho mai visto/perché la terra non gira più,/resta affissa alla testa del letto/più pietosa di un’icona sacra.”. Altre volte, invece, lo sguardo affonda come lama nel cuore pulsante dei dilemmi e dei dolori quotidiani, nei quali non possiamo non riconoscerci; e lo fa, l’autore, con onestà (“La nostra vita non è stata banale/perché non abbiamo perso tempo,/ci siamo buttati, abbiamo ballato,/ci siamo svestiti come fachiri sulle piante dei dolori.”), senza il timore o la vergogna del corpo nudo esposto, la cui fragilità ci fa caracollare sui giorni (“Mi sono fermato ad un passo/dalla santità grazie al peccato,/l’unico che ho ingoiato, è stato/l’acqua sul fuoco, la legna bagnata,/il fumo nero della mancata elezione.”
Poesie che certo non rassicurano, falsamente, per amor di lieto fine; in cui, anzi, come scrive paolo Ruffilli nella prefazione, “…un’ansia avvolge ogni cosa per quanto – si direbbe – un tempo appariva ancora come segno di speranza e di vita e ora resta scoperto come incerto e incompiuto, in una consistenza inconsistente (…) che è il dramma della vita e, nel contempo, il fascino della poesia.” gn