di Emanuele Isonio
Fonte: Valori - Mensile di economia sociale, finanza etica e sostenibilità
CATEGORIE: Alimentazione , Etica
Pasta. Una filiera in lotta contro la speculazione
ITALIA = PASTA. Insieme a pizza, mafia e mandolino è una delle poche parole che, da sempre, ci sentiamo ripetere quando viaggiamo all’estero: non c’è latitudine in cui non si riconosca quel profondo legame ormai divenuto proverbiale. E, a leggere i dati del settore, quella valutazione sembra ancora fondata. L’amore per la pasta non conosce crisi in Italia e continua a crescere all’estero. Una volta tanto, dopo svariate filiere alimentari che mostravano molte ombre, sembra che il settore goda di una salute invidiabile. Ma, a leggere bene i dati, soprattutto se non ci si concentra solo sull’ultimo anno, qualche elemento di preoccupazione c’è comunque.
Monopolio tricolore senza rivali
Partiamo dalle cifre più rassicuranti: il trend storico rivela che negli ultimi 10 anni la produzione si è stabilizzata sempre oltre i 3 milioni di tonnellate ed è in progressivo, lieve, aumento (+5,3% tra 2001 e 2010). Con i consumi casalinghi sostanzialmente stabili, a testimonianza di un mercato ormai saturo (mangiamo 26 chili di pasta a testa ogni anno, più del doppio dei venezuelani, secondi in classifica), l’incremento delle quantità prodotte testimonia un affetto crescente degli stranieri. Talmente in crescita da aver determinato il gran sorpasso: ormai da 6 anni i consumi esteri hanno superato quelli nazionali.
«La pasta – spiega Emidio Mansi, responsabile commerciale di Garofalo, plurisecolare marchio campano – è un alimento anticiclico, che unisce enormi qualità nutrizionali a un gusto inconfondibile. Quindi, anche se la crisi porta a un taglio delle spese alimentari, le famiglie non si privano del piatto di spaghetti o di fusilli». Tra l’altro, il settore non deve angosciarsi, a differenza di altri, nemmeno per la concorrenza estera: un piatto di pasta su quattro nel mondo e tre su quattro in Europa sono made in Italy.
Ma non mancano le spine
Fin qui le note liete. Altri aspetti però agitano il futuro di chi lavora nella filiera. Qualche numero: in 30 anni i pastifici sono passati da 238 a 139 (-42%), gli addetti da 10 mila sono scesi a poco più di 8 mila. Nello stesso arco temporale la capacità produttiva potenziale è salita da 100 mila a 155 mila quintali al giorno. Tradotto: sul mercato rimangono solo i grandi gruppi (oggi i primi 5 marchi detengono il 70% delle vendite), quelli piccoli soffrono e non di rado chiudono.
Ma non basta: la capacità produttiva è superiore alla quantità di pasta prodotta e venduta. «Questo aspetto - spiega Riccardo Felicetti, vicepresidente di Aidepi, l’associazione che riunisce le industrie del Dolce e della Pasta - rende il settore molto aggressivo ed estremamente esposto alla competizione. Tutto ciò limita le capacità di investimento e lo sviluppo di nuovi prodotti. E i più “piccoli” non riescono a superare l’ambito più strettamente locale».
I piccoli produttori, tra l’altro, hanno un altro Everest da scalare: quello della Gdo (Grande distribuzione organizzata), che controlla i canali di vendita. «In Italia, 3-4 gruppi monopolizzano la spesa degli italiani», prosegue Felicetti. «Determinano quindi i prezzi dei prodotti e incidono sull’assortimento. Ed è chiaro che solo i grandi pastifici hanno la forza necessaria per parlare da pari a pari con chi la pasta la mette sugli scaffali».
Materie prime sulle montagne russe
Ciò che, invece, accomuna la filiera della pasta con le altre esaminate dalle precedenti inchieste di Valori è il problema della remunerazione del lavoro: anche per la pasta, non sempre i ricavi coprono i costi di produzione.
Un problema comprensibile, in un settore molto competitivo, in cui c’è sempre un concorrente disposto ad abbassare i propri prezzi per fare fatturato. E un problema reso più stringente dalla speculazione internazionale sulle commodities, che fa salire sulle montagne russe i prezzi delle materie prime.
I dati Ismea lo mostrano chiaramente: «Il prezzo del grano duro è divenuto molto più volatile negli ultimi anni, rendendo difficile per un’azienda la valutazione dei costi e quindi delle strategie di mercato», ammette Emidio Mansi. «Le oscillazioni – commenta invece Felicetti - hanno sempre meno a che fare con motivi reali. Sono frutto solo di scelte finanziarie. Se le materie prime in pochi mesi salgono anche del 170%, ciò sconvolge la vita dei pastifici». Il prezzo della materia prima, nel caso della pasta di grano duro, incide infatti per il 50% del costo totale di produzione. E se la speculazione può mettere in ginocchio gli Stati, figurarsi aziende con poche decine di addetti.
Nuovi rapporti nella filiera
In un simile scenario rimanere inattivi è assai poco prudente. Un aiuto potrebbe arrivare dalla costruzione di nuovi rapporti con i produttori italiani di grano duro (il grano nazionale copre il 70% della produzione di pasta. Il restante 30% proviene da Europa, Stati Uniti, Canada e Messico).
Un passo ritenuto necessario dagli stessi produttori: «Va costruito un modello contrattuale nuovo che garantisca, agli agricoltori, una remunerazione equa del lavoro - spiega il vicepresidente di Aidepi - e, al tempo stesso, assicuri stabilità dei prezzi ai mugnai e ai pastai. Ma per arrivarci serve un cambio culturale di tutti i soggetti della filiera, abituati più a guardarsi con diffidenza che a collaborare insieme».
Una soluzione che ricorda da vicino quella praticata da tempo nel mondo dell’altra economia dai gruppi d’acquisto solidale: fissare insieme il prezzo giusto, per sterilizzare il rischio della speculazione. L’idea potrebbe aiutare soprattutto i pastifici più piccoli, che potrebbero trarre giovamento anche da un'altra mossa: investire nella ricerca di prodotti di nicchia che incontrino i gusti dei consumatori più attenti alla qualità. La sfida non è semplice. Ciò non di meno, alcuni pastai - come diremo negli altri articoli di questa inchiesta - ci stanno provando. Con risultati tutt’altro che trascurabili.