Così come io soffro durante riunioni che sconfinano nel tecnicismo ingegneristico più sfrenato, mi chiedo perché la parola sottosquadro abbia il potere di accendere luci di eccitazione negli occhi degli astanti, continuo a guardare l’ora e mi perdo nei prati dei miei pensieri, così ieri ho visto un uomo soffrire.
Soffriva per poesia.
Pativa per esposizione a rime, sinestesie, colori e sensazioni. Si perdeva di strofa in strofa senza trovare il bandolo del significato, sordo alla bellezza dei versi, alla potenza immaginifica delle parole. Era buffo, grande e grosso e insofferente sulla seggiolina dei banchi di scuola. Si dimenava, si rodeva nel dubbio se andarsene o restare fino alla fine della lezione di spagnolo. Volgeva gli occhi interrogativi verso chiunque nella speranza che qualcuno gli spiegasse cosa ci fosse, di meraviglioso, in una poesia.
L’ho preso in giro, senza cattiveria, perché lo capivo benissimo: io sono inerte davanti alla perfezione dei meccanismi, lui è ignaro del potere della parola. Io sono un ingegnere e dovrei gioire di fronte all’anima del metallo che viene assoggettata all’uomo , lui un carabiniere e dovrebbe essere maestro nell’arte di comunicare: e questo è il vero problema. (Oltre a quello che entrambe le categorie ben si prestano alle barzellette.)