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Paura e Disgusto a Las Vegas

Creato il 05 dicembre 2011 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il dicembre 5, 2011 | LETTERATURA | Autore: Mario Turco

Paura e Disgusto a Las VegasIl Sogno Americano e la sua nemesi. Un parassita intestinale che morso dopo morso dilania le viscere dell’organismo che lo ingloba, forsennatamente, pur sapendo che la morte dell’Ospitante sarà anche la morte dell’Ospite. La letteratura americana dell’ultimo secolo facendo da contraltare agli sconfitti e ai diseredati del capitalismo a stelle e strisce, in realtà non ha fatto altro che eternarne gli stilemi. La loro epistemologia della distruzione è, come tutta la loro storia, autoreferenziale: per creare qualcosa di nuovo dobbiamo semplicemente annientare noi stessi, poi rinasceremo più forti, moderne arabe fenici. Come se gli Altri non esistessero, relegati in un esotismo da cartolina. Perfino per Henry Miller, Parigi rappresentava il luogo migliore per la Fuga dal Sogno, mai che si innalzasse a catarsi. E che dire dell’eccentrico Hunter S. Thompson che, dell’autarchia americana, è l’emblema più appariscente fin dal suo “Paura e disgusto a Las Vegas”? Nella capitale del gioco d’azzardo (ma non del Nevada, a differenza di quanto si crede quella è Carson City), sono presenti tutti i parossismi più sfrenati dell’avidità occidentale. E allora niente di più semplice per un autore cool, anzi più che cool, gonzo, infilare all’interno di questo baraccone pecuniario, due spiantati ex-sessantottini che in un trip lungo intere giornate, infrangono più regole possibili pur facendo il lavoro per il quale sono profumatamente pagati.

Paura e Disgusto a Las Vegas

Raoul Duke, alter ego dello stesso Thompson, e il suo avvocato, che si firma Dottor Gonzo (altro nick dello scrittore), dovranno dapprima fare il resoconto della Mint 400, la più spettacolare gara sportiva di moto e dune buggy e, in seguito, si ritroveranno a seguire la conferenza antidroga promossa dall’Associazione nazionale dei Procuratori Distrettuali («Se i Maiali si riunivano a Las Vegas per una Conferenza Antidroga di alto livello, sentivamo necessario che anche la cultura della droga fosse rappresentata»). Thompson ha un merito sacrosanto: aver creato il “gonzo journalism”, un tipo di giornalismo che esulando da un’oggettività impossibile (“Non si può essere oggettivi su Nixon” ha saggiamente detto una volta), si intreccia con esperienze personali, poca attenzione per i fatti e particolare propensione per una scrittura molto più narrativa che descrittiva. “Paura e disgusto a Las Vegas” apparve nel 1971 in  due puntate sulla rivista musicale Rolling Stone, la cui versione americana, nei ‘70, sperimentava nuove forme di collaborazione che adesso si ritrovano solo in qualche giornale underground. I protagonisti del romanzo, un giornalista e il suo folle avvocato samoano, stanno cercando la fonte del Sogno Americano. Curioso come un popolo privo di radici, veda la propria letteratura e cinematografia percorse da questa ricerca filosofica.

Paura e Disgusto a Las Vegas

Più prevedibile invece, data l’enormità degli spazi e, in particolare, del deserto del Nevada, come il loro tentativo parta e si concluda in un on the road meno polveroso di quello di Jack Kerouac. “Paura e disgusto a Las Vegas” è innanzitutto un resoconto, amaro, del “Flower Power”, cioè della cultura dei “Figli dei fiori”. Nei tre anni successivi al ‘68 il Movimento si era involuto su sé stesso e nel ‘71, con Nixon alla presidenza e con l’America che stava ancora leccandosi le ferite della guerra in Vietnam, esalava gli ultimi respiri. Una generazione si era illusa e adesso faceva i conti con i rimasugli di quelle utopie infrante. Cosa era rimasto? A leggere Thompson, soltanto le droghe. Anche se l’edizione Bompiani nella quarta di copertina esagera nel definirlo «una Divina Commedia alla mescalina» (ma questi strilli rendono davvero commercialmente?), il romanzo è una cavalcata lisergica nel cuore di Las Vegas, tra il famoso Strip, la via dove si affacciano quasi tutti i casinò, fino a North Las Vegas, la periferia della città, dove finisci se – come i due protagonisti – hai combinato troppi guai per restare nel centro.

Paura e Disgusto a Las Vegas

Nei momenti di stasi che l’ininterrotto consumo di droga gli concede, Raoul si sofferma a pensare alla fine di quel periodo. Nell’ottavo capitolo, con la straordinaria capacità di analisi che può possedere soltanto chi c’era, Duke-Thompson scriverà: «Ma anche senza esser sicuri di cosa dice la Storia pare del tutto ragionevole pensare che ogni tanto l’energia di un’intera generazione si concentri in un lungo bellissimo lampo, per ragioni che sul momento nessuno capisce – e che mai spiegheranno, retrospettivamente, ciò che è veramente accaduto… C’era follia in ogni direzione, a ogni ora… C’era una fantastica universale impressione che qualunque cosa si facesse fosse giusta, che si stesse vincendo… E quella, credo, era la nostra ragion d’essere – quel senso di inevitabile vittoria contro le forze del Vecchio e del Male. Vittoria non in senso violento o militare: non avevamo bisogno. La nostra energia avrebbe semplicemente prevalso. Non c’era lotta – tra la nostra parte e la loro. Avevamo tutto l’abbrivo noi; stavamo calcando un’onda altissima e meravigliosa. Ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una qualsiasi collina a Las Vegas e guardare verso ovest, e con gli occhi adatti potevi quasi vedere il segno dell’alta marea – quel punto in cui l’onda, alla fine, si è spezzata per tornare indietro». Un riassunto fulminante, nella sua laconicità eloquente.

Paura e Disgusto a Las Vegas

Nel prosieguo del romanzo, Thompson proverà a rintracciare i motivi reali della rottura del “Flower Power”, riconducibili forse al disperato tentativo della Sds (organizzazione studentesca di estrema sinistra) di democraticizzare anche i violenti Hells Angels, la più famosa banda di motociclisti americana. Ma il tentativo sa tanto di frustrazione dell’ex, e Thompson cautamente chiude subito questo canale. L’ultima edizione Bompiani, curata da Sandro Veronesi, schiaffa in copertina la locandina dell’omonimo film diretto da Terry Gilliam e, per speculare ancor più sul successo commerciale, anche nel retro specifica che il libro è l’ispirazione della pellicola con Johnny Depp. Il romanzo è lo Squalo Rosso e la Balena, rispettivamente una Chevrolet rossa decappottabile e una lussuosa Cadillac, è anche il timido autostoppista raccolto per strada e fatto fuggire in men che non si dica, è anche la Lucy prima abbindolata e poi abbandonata che disegna decine di quadri con il faccione di Barbra Streisand, è anche tutti i migliori riferimenti musicali di quegli anni, dai Jefferson Airplane a Bob Dylan e ai Rolling Stones, ed è soprattutto quei pompelmi così presenti nella quasi totalità delle scene del romanzo.

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In appendice a questa edizione si trova anche la fondamentale “Piccola Enciclopedia Psichedelica” senza la quale molti riferimenti andrebbero persi. Sarebbe stato onestamente impossibile raccapezzarsi tra svariate marche di auto e moto, sorprendentemente sviscerate dal regista Marco Tullio Giordana, e tra il cocktail di droghe assunto dai protagonisti: adrenocromo, blotter, DMT, dramamina, etere, laudano, LSD, mescalina, metamfetamina, metedrina, PCP, popper, protossido di azoto, romilar, rosse, speed, stramonio, thorazina (per sottacere dei cocktail alcolici!) spiegate dal ricercatore Antonio Lo Turco. In questa piccola enciclopedia sono presenti altri nomi di spicco oltre allo stesso Veronesi, dallo scrittore Edoardo Nesi al critico musicale Gino Castaldo, da Fernanda Pivano a Pino Corrias. Perfino Alessandro Baricco risulta in questo catalogo meno spocchioso del solito, mentre barbina figura fanno il celebrativo Gianni Minà (che gonfia da par suo la voce su Muhammad Ali) e l’oscuro Enrico Ghezzi. Il libro inoltre è arricchito dalle vignette di Ralph Steadman, autodefinitosi “gonzo artist” in onore del suo mentore. Peccato che la carta ruvida scelta per questa edizione renda le vignette un guazzabuglio di linee nerastre, facendo perdere ai disegni in fluidità. “Paura e disgusto a Las Vegas”, sia detto chiaramente, è un gran romanzo. Sorretto da dialoghi strepitosi, acrobazie verbali e situazioni allucinate. Thompson scrive dannatamente bene, con l’esistenzialismo nichilista dei migliori scrittori americani, da Ernest Hemingway in poi. E anche lui, come molti di loro, farà una fine tragica: nel 2005 si sparerà un colpo di fucile in bocca. Il Sogno Americano è la stella polare di quella nazione, per tutti, anche per chi non lo accetta e passa la vita a frantumarlo. E quando sei stanco, in acido, depresso, ubriaco, sa prendersi la sua ultima, definitiva vendetta. Se vivi in USA, ne resti inesorabilmente schiacciato. Se nemmeno la Fuga rappresenta la soluzione, resta la consolazione che essa è fonte, anche se tragica, di grande letteratura. In fondo è una buona consolazione in un mondo dove gli uomini vengono dimenticati e le parole restano per secoli.



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