Dopo due settimane a Beirut sono a pronto a ripartire. La capitale del Libano si è rivelata una compagna dolce e affettuosa, un teatro di personaggi eccentrici e storie intense. Nota come “la Parigi del Medio Oriente” fino agli anni Settanta, Beirut sta cercando di abbracciare un rinnovato benessere dopo la lunga guerra civile e l’occupazione israeliana. L’instabilità dell’area non è di aiuto, dal confine siriano giungono migliaia di profughi e si teme un’infiltrazione di jihadisti.
Mi avvertono che il mio taxi sarà un po’ in ritardo a causa del traffico. Poco male, mi ero preparato con largo anticipo per non perdere l’aereo e posso permettermi di attendere qualche minuto. Quando però ci ritroviamo incastrati nel traffico cittadino – già caotico nei giorni normali ma completamente schizofrenico questo pomeriggio – mi accorgo che qualcosa non va. Troppi poliziotti, troppe strade chiuse, troppa agitazione.
Accostando il taxi chiediamo a un militare cosa sia successo e otteniamo la drammatica risposta: pochi minuti fa un attentato suicida sull’autostrada Beirut-Damasco ha causato la morte di un poliziotto e il ferimento di altre 32 persone. Pare che l’attentatore mirasse al capo della General Security, ma questi è sfuggito all’esplosione con il suo convoglio pochi istanti prima che che venisse azionato il detonatore. Le strade verso le principali istituzioni pubbliche e internazionali sono bloccate, anche per arrivare in aeroporto l’arteria principale è una lenta carovana di veicoli fittamente raccolti che scalpitano per avanzare.
Nonostante l’evidente stato di allerta che si respirava nei punti di controllo dell’esercito disseminati per tutto il Paese, in questi giorni la tranquillità con cui esploravo il Libano come un qualunque turista affascinato dai suoi paesaggi e dalla sua storia mi aveva quasi convinto che l’ansia e la paura fossero ormai relegate al passato.
È vero, Israele continua a minacciare la sovranità del governo nelle regioni meridionali e gli Hezbollah, a cui è affidato un ruolo significativo per il mantenimento della sicurezza nonostante la guerra di liberazione che ne aveva istigato la nascita sia conclusa, si sono schierati a favore del regime siriano per scongiurare l’ennesimo catastrofico vuoto di potere nella regione, ma di queste manovre a Beirut e nelle principali località turistiche del Paese non arriva che un’eco pacata.
A parte i numerosi cantieri aperti per rigenerarne la bellezza, la capitale del Libano è una metropoli pacifica assorta nella sua mondanità. Per Armenian Street, a pochi chilometri dal centro, si susseguono bar e ristoranti in cui residenti e turisti festanti si affollano ogni sera per bere, mangiare e ballare. Sul perimetro del suk – un concentrato di lusso e modernità in netto contrasto con l’accezione a cui questo termine mi aveva abituato in Egitto e Tunisia – vigilano soldati e poliziotti, ma raramente i turisti vengono fermati per dei controlli.
La questione più ardente con cui ero stato messo in contatto durante la mia permanenza riguarda la gestione dei rifugiati provenienti dalla Siria. Il governo libanese ha concesso loro ospitalità e aiuti economici, ma il loro ingente numero pesa sull’economia locale e a Beirut serpeggia un malcelato scontento che si esprime nei casi più gravi con il divieto di ingresso per i siriani in alcuni negozi e ristoranti.
Kristian, il ragazzone danese che ha fondato Hostel Beirut sotto l’egida di un’organizzazione non governativa, mi ha spiegato che il suo progetto di riciclaggio, oltre a soccorrere una situazione ambientale troppo spesso minacciata dall’incuria dell’apparato statale, punta a creare opportunità di lavoro per la manodopera non specializzata proveniente dalla Siria. Adnan, che condivide il mio stesso dormitorio, è arrivato da Damasco, è un medico anestesista e sta cercando lavoro presso qualche organizzazione umanitaria per sfuggire alla tragedia del suo paese: “In Siria o ti arruoli con l’esercito o passi dalla parte dei ribelli, è una situazione senza via di scampo. La maggior parte della popolazione vuole solo sopravvivere e chi come me non vuole schierarsi è costretto a scappare.”
Nelle serate passate a sorseggiare birra sulla terrazza dell’ostello sono emersi anche alcuni emozionanti aneddoti relativi all’incontro con l’esercito o gli Hezbollah. Un anziano viaggiatore americano è stato tenuto in custodia per tre notti, principalmente a causa della sua barba lunga – “Alle ragazze piace” insisteva sornione nonostante i suoi settant’anni – per poi essere rilasciato senza conseguenze. Persino io sono stato fermato un paio di volte dagli agenti di sicurezza in borghese mentre mi aggiravo con la mia macchina fotografica per i Monti Chouf nell’entroterra, ma dopo aver esaminato il mio passaporto con grande cortesia mi hanno sempre lasciato proseguire indisturbato.
Senza alcuna difficoltà ero stato a Biblo (oggi ribattezzata in arabo Jbeil) per ammirarne le magnifiche rovine, mi ero rilassato sulle spiagge di Tiro (in arabo Sur), ho visitato l’interessantissimo museo degli Hezbollah a Mleeta… insomma, ho esplorato il Libano senza alcuna preoccupazione, rinfrancato dalla calorosa ospitalità dei suoi abitanti e dai saporiti piatti che arricchiscono la sua tradizione culinaria.
Ecco perché partire con la notizia dell’attentato nel cuore è particolarmente traumatizzante. Un brusco risveglio ad una realtà cupa e insidiosa. Un risveglio che diverrà ancora più bursco con la notizia nei giorni seguenti di due ulteriori attentati. Una realtà che si pone ancora una volta impietosa sul percorso verso la pace di un paese straordinario, la cui ricchezza culturale dovrebbe essere un fulgido esempio di convivenza tra popoli e religioni.