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Pedagogia dei luoghi comuni

Creato il 11 febbraio 2012 da Albertocapece

Pedagogia dei luoghi comuniLicia Satirico per il Simplicissimus

Come in un crescendo rossiniano, il primo pedagogo parlante è stato Monti, premier “per tempi disperati”, nell’intervista a Time: «spero di cambiare il modo di vivere degli italiani, perché altrimenti le riforme strutturali sarebbero effimere». Il secondo pedagogo è stato Marchionne, che ha subito appoggiato il governo in carica «altrimenti si torna tutti alle caverne»: escluso ogni riferimento imprenditoriale a miti platonici, resta il dubbio che nelle caverne suddette l’applicazione dell’articolo 18 non sia ritenuta preistorica. L’apoteosi pedagogica spetta però, per acclamazione, al lungo editoriale di Beppe Severgnini apparso oggi sul Corriere. Anche Severgnini diventa ortottero e comincia a discettare di cambiamenti impossibili e di insetti simbolici: «non siamo previdenti come la formica della favola, ma siamo troppo smaliziati per non intuire il destino della cicala». Sarà perché la cicala era cara agli antichi greci oggi in profetico collasso economico, sarà forse perché gli italiani-formiche con posto fisso e piccoli risparmi sembrano proprio lo zimbello del governo Monti, ma l’accostamento entomologico non convince.

In effetti, di tutti i luoghi comuni declinati da Severgnini non convince nulla. Noi italiani possiamo e dobbiamo diventare qualcos’altro, tenendoci tutte le nostre storiche virtù inimitabili e lavorando sulle debolezze correggibili, «denunciate sempre con squilli di retorica ma sostanzialmente impunite». Tra le debolezze figurerebbero «l’intelligenza (asfissiante), l’inaffidabilità, l’individualismo, l’ideologia e l’inciucio». Non mancherebbe, peraltro, qualche “debolezza spettacolare”, subito articolata in tre esempi di portata epocale: «altre culture hanno prodotto malavita organizzata – spesso frutto di un’idea degenerata di famiglia – ma soltanto la mafia ha creato tanta letteratura, tanto cinema e tanta televisione. Molte belle città hanno attraversato momenti difficili: ma Roma e Napoli sono riuscite a trasformare problemi normali (immondizia e neve) in pasticci clamorosi, fornendo sfondi gloriosi a polemiche imbarazzanti. Alcuni Paesi importanti hanno eletto leader teatrali: ma nessuno ha eletto (tre volte!) un personaggio come Silvio Berlusconi, vero detonatore di stereotipi».

L’intento paideutico ha qui evidentemente asfissiato l’intelligenza di Severgnini, che considera la letteratura sulla mafia una debolezza narcisistica, quasi un vezzo autoreferenziale: come se lo scrivere di mafia potesse alimentare quell’antistato la cui presenza rappresenta non una mera “debolezza”, ma una tragedia piena di morti. D’altronde, si tratta anche di affermazione non inedita: nell’aprile 2010 Silvio Berlusconi dichiarò che la mafia italiana è famosa per Gomorra, e che fiction e letteratura sarebbero state un supporto promozionale per una forma di criminalità che è in realtà solo la sesta al mondo. Inedito è invece l’accostamento tra immondizia e neve, semplicisticamente liquidate come “pasticci clamorosi”: si mettono sullo stesso piano gli sforzi recenti di De Magistris contro la gestione criminale dei rifiuti (a proposito di mafie poco letterarie) e la debacle di Alemanno di fronte alle precipitazioni atmosferiche. Quanto a Silvio Berlusconi, come lo stesso Severgnini ricorda, Monti ha espresso al Time apprezzamento per il suo progressivo recupero di credibilità come uomo di stato internazionale, che favorisce l’evoluzione dell’Italia: il detonatore di stereotipi è sulla bocca riconoscente dell’uomo che vuole cambiare gli italiani.

Severgnini prosegue con l’asfissia da paragoni. L’Italia non è come gli orologi ma al più come i bambini: non può pretendere servizi sociali nordeuropei mantenendo comportamenti fiscali nordafricani, non può permettersi scuole, ospedali e strade finché investe nell’economia malavitosa, nelle banche svizzere, in corruzione, in rendite ingiustificate, in sprechi. Non possiamo, a maggior ragione, «andare in pensione quando siamo ancora attivi, per essere mantenuti da giovani che manteniamo inattivi (chiudendo loro il mercato del lavoro)».
Veniamo, è vero, da un ventennio eversivo il cui esponente di punta riteneva di sentirsi moralmente autorizzato a non pagare le tasse: ma è addirittura offensivo per disoccupati, pensionati e malati collegare i micidiali tagli alla spesa pubblica delle politiche liberiste agli investimenti (si spera non statali) nell’economia malavitosa, nelle banche svizzere e nella corruzione. È singolare descrivere il mercato del lavoro come un circolo vizioso in cui chi va in pensione prima del tempo si fa mantenere da chi non può lavorare perché le nuove assunzioni sarebbero precluse dal peso economico dei pensionamenti anticipati.

È oltraggioso pensare di essere educati attraverso la riduzione dei diritti, attraverso i sacrifici imposti da chi non li fa, da chi si erge a educatore sentendosi al di sopra di ogni messaggio educativo: da chi, come scrive Anna Lombroso, usa il “voi” e non il “noi”, ribadendo una distanza incolmabile tra governanti e governati. La paura della precarietà, lo spettro della Grecia non hanno nulla a che vedere con pregi e difetti endemici di un popolo: né ci salveranno solo gentilezza, generosità, grinta, gusto e genio.
Una classe politica squalificata, confusa e non più in grado di rinnovarsi rende poi improbabile l’immagine severgniniana del vecchio prodotto elettorale “che si allontana nel cosmo politico a velocità vertiginosa”. A noi Santanché non sembra affatto “il nome di un satellite di Saturno”: e pare che persino i satelliti di Saturno, raggiunti dalla notizia, abbiano rimarcato le opportune distanze.


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